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DIRITTO DI CITTADINANZA  

Corte Suprema di Cassazione,

Sezione Prima Civile,

Sentenza 22 novembre 2000  n. 15062 - Naghnaghi contro Ministero dell'Interno

Per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 87 del 1975 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 10 della legge n. 555 del 1912 " nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna") e 30 del 1983 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'articolo 1 della stessa legge " nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina "), dalla data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana       (1 gennaio 1948) la titolarità della cittadinanza italiana va riconosciuta anche alle donne (che l'avevano perduta, in quanto coniugate con cittadino straniero prima di tale data, nonché ai figli di madre cittadina) che non l'avevano acquistata perché nate anteriormente al primo gennaio 1948. (Nella specie, la Suprema Corte, in base all'enunciato principio, ha dichiarato  cittadini italiani i tre figli di una donna che, nata cittadina italiana libica, aveva perso tale cittadinanza a seguito del matrimonio contratto nel 1944 con un cittadino tunisino). 

Testo integrale della sentenza:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Sentenza

 sul ricorso proposto da Nagnhaghi G. + 2   -            ricorrente -

contro

Ministero degli Interni,                                   - controricorrente -

Nonché contro

Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano - intimato –

avverso la sentenza della Corte d'Appello di Milano.

 Svolgimento del processo

 

1. 1 con atto di citazione del 1988, Nagnhaghi G +2  nati rispettivamente nel 1944, nel 1949 e nel 1950 esposero di essere i figli di Nagnhaghi M. , nato nel  1913 in Tunisia, e di M. G., nata in  Libia nel  1916 e deceduta nel 1976 - i quali avevano contratto matrimonio nel 1944.

Gli attori, esposero altresì: a) che sia essi - in quanto nati e residente in Libia sin dalla nascita – sia la loro madre dovevano essere considerati cittadini italiani-libici ai sensi delle disposizioni vigenti all'epoca e, in particolare, del R.Decreto legge 3 dicembre 1934 n. 2012; b) - che essi e la loro madre - come pure il loro padre- erano di stirpe e confessione israelitica, sicché non era mai stata loro riconosciuta la cittadinanza libica, dopo la costituzione del regno unito della Libia il 24 dicembre 1951, durante la permanenza in quello stato, protrattasi fino a 1971;

c) -che, a seguito dell'entrata in vigore della costituzione italiana (primo gennaio 1948) e, quindi, del principio di eguaglianza, sancito dall'articolo 3, l'anteriore, imperfetto status civitatis (cittadinanza italiana libica) si era convertito nella cittadinanza italiana optimo jure;

d) - che, sotto altro profilo essi dovevano considerarsi cittadini italiani, in quanto figli di madre cittadina, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 1983 ;

e)-ed infine, che, anche a voler ritenere che essi avessero acquistato, nel 1954, la cittadinanza libica, avrebbe dovuto applicarsi nei loro confronti l'articolo 9, n.3 della legge n. 555 del 1912, con conseguente riacquisto della cittadinanza italiana, tenuto conto della loro perdurante residenza in Italia a far data dal 7 luglio 1973.

Tanto dedotto, gli attori convennero il Ministro dell'interno dinanzi al tribunale di Milano, chiedendo che venisse loro riconosciuto lo status civitatis  optimo Jure, ovvero, in subordine, che venisse dichiarata la loro cittadinanza italiana ai sensi dell'articolo 9 n.3 della legge n. 555 del 1912.

Costituitosi, il Ministro dell'interno instò per reiezione delle domande, sottolineando in particolare, che la madre gli attori, al momento della nascita di questi ultimi, doveva considerarsi cittadina tunisina a seguito del matrimonio contratto con cittadino tunisino.

Il Tribunale adìto, con sentenza dell’ottobre 1990, rigettò le domande.

1. 2 a seguito di appello dei fratelli  Nagnhaghi, la corte di Milano, con del 1996, rigettò il gravame.

La Corte, in particolare, ha fondato la decisione sulle considerazioni che seguono: a)-" la Corte ritiene risolutivo ai fini decisori il rilievo che la madre degli appellanti, al momento della loro nascita, non era più cittadina italo-libica, avendo perso detta cittadinanza per effetto delle nozze contratte con cittadino tunisino (articolo 10 legge 555). Il tribunale ha seguito tale impostazione, osservando che al momento dell'entrata in vigore della Costituzione ed al momento della nascita di figli, la madre aveva perduto la cittadinanza Italo libica ed entrambi i genitori erano tunisini. Il dubbio......... in merito all'applicabilità della norma di cui all'articolo 10 della legge 555/1912 (dettato per i cittadini italiani) ad una cittadina italo libica và fugato  senz'altro, rilevandosi che ai  cittadini italo libici si applicano le disposizioni di cui alla richiamata legge, poiché trattasi di materia che la legislazione speciale sulla cittadinanza italo-libica non disciplina e poiché il disposto dell'articolo 44 (recte: 43) di quest'ultima normativa (R.Dec. Legge 3 dicembre 1934 n. 2012) estende loro, oltre ai codici civile, commerciale e penale, anche le relative disposizioni complementari in vigore nel regno, fra le quali deve annoverarsi la normativa in materia di cittadinanza "; b)-" la Corte ritiene che giustamente il tribunale ha escluso che nella specie potesse avere alcun effetto la pronuncia della Corte costituzionale invocata dagli attori, poiché al momento della loro nascita la madre non era cittadina italiana, né italo-libica, bensì cittadina tunisina Jure matrimoni...... nel caso di specie al prodursi degli effetti retroattivi della pronuncia di incostituzionalità si oppone il rilievo dell'esistenza di una situazione ormai esaurita, quale la perdita della cittadinanza italo-libica per effetto del matrimonio con cittadino tunisino e del conseguente  acquisto della cittadinanza tunisina, il perpetuarsi di questa situazione al momento della nascita dei figli, che nacquero quindi, da genitori entrambi tunisini, acquistando essi stessi la cittadinanza tunisina, il mancato esercizio da parte della madre della facoltà di scelta di cui all'articolo 219 della legge n. 151 del 19 maggio 1975, che comunque le avrebbe consentito il riacquisto della cittadinanza, con effetti ex nunc, infine l'intervenuto decesso della stessa nel 1976. Si deve pertanto concludere...... che il rapporto di cittadinanza sia suscettibile di produrre effetti cosiddetti consolidati, in particolare ove la norma in seguito riconosciuta illegittima abbia procurato, come nel caso di specie, l’ablazione dello status ";

 c) " non può che essere negata anche l'ultima possibilità...... con riferimento all'articolo 9 della legge 555/1912...... è evidente difatti, che la norma si riferisca a chi, essendo cittadino italiano, abbia perso la cittadinanza per uno dei casi previsti dagli articoli 7 e 8 della stessa legge; in particolare l'ultima disposizione si riferisce a chi abbia perso la cittadinanza italiana (o si ammette anche italo-libica) per effetto dell'acquisto di cittadinanza straniera. Ma gli attori/appellanti non hanno mai avuto la cittadinanza italiana, né quella italo-libica, per essere fin dalla nascita cittadini tunisini in quanto nati da genitori tunisini ".

1. 3 Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Nagnhaghi + 2, deducendo un'unico, articolato motivo di censura, illustrato con memoria.

Resiste, con controricorso, il Ministro dell'interno.

Motivi della decisione

2. 1 con l'unico motivo (con cui deduce " violazione e falsa applicazione di norme di diritto - nsufficiente, omessa e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia "), i ricorrenti, criticando la sentenza impugnata, sostengono: a) - in primo luogo, che, al momento delle loro rispettive nascite, la madre non aveva perduto la cittadinanza italo-libica per effetto del matrimonio  dalla stessa contratto con cittadino tunisino, in quanto l'ipotesi della perdita della cittadinanza italo-libica a siffatto titolo non risulterebbe prevista dalla disciplina dettata dal regio decreto legge n. 2012 del 1934, unica applicabile, in quanto " speciale " rispetto alla legge n. 555 del 1912; b) -in secondo luogo, per un verso, che non sussisterebbe alcun ostacolo (" rapporto esaurito ") all'esplicazione degli effetti retroattivi  della sentenza di incostituzionalità n. 30 del 1983, tenuto conto della natura imprescrittibile dello status civitatis, e, peraltro, che l'omessa dichiarazione di cui all'articolo 219 della legge n. 151 del 1975 sarebbe priva di effetti preclusivi sul predetto status, in quanto la norma avrebbe " solo carattere amministrativo-esecutivo per l'esercizio concreto del proprio status civitatis ..... e non carattere costitutivo " (cfr. ricorso, pag. 8); c) -sotto altro profilo, che essi - in quanto nati in Libia ed ivi residenti per moltissimi anni - avrebbero dovuto essere considerati, a prescindere dal rapporto di filiazione, quali cittadini italiani libici; d )- ed infine, che, nella specie, sarebbe applicabile l'articolo 9 n.3 della legge n. 555 del 1912, tenuto conto che essi, espulsi dalla Libia, erano pacificamente residenti in Italia dal 1973.

2. 2 il ricorso merita  accoglimento nei sensi quindi seguito precisati.

A) - dal momento che i ricorrenti, sin dall'atto introduttivo del presente giudizio, hanno incentrato l'azione di reclamo dello status civitatis  italiano sulla deduzione di essere figli di madre cittadina al momento della loro nascita, è indispensabile premettere alcune considerazioni in ordine alla cittadinanza della madre - ed ai suoi mutamenti nel corso del tempo - in base alle pacifiche circostanze, emergenti sia dalla sentenza impugnata, sia dagli atti difensivi delle parti: 1)-la madre dei ricorrenti, in quanto nata in Libia  nel 1916 (cfr, sopra, n. 1. 1),  doveva considerarsi certamente titolare dello status di " cittadina italiana libica ", ai sensi dell'articolo 33, III periodo, del regio decreto legge 3 dicembre 1934 n. 3012 (ordinamento organico per l'amministrazione della Libia, convertito nella legge 11 aprile -135 n. 675 (cfr anche articolo 1 e 2 del regio decreto legge 9 gennaio 1939), a tenor del quale, fra l'altro, " sono cittadini italiani libici...... i  nati  in Libia, dovunque residenti, che non siano cittadini italiani metropolitani o cittadini o sudditi stranieri in conformità alle leggi italiane "; 2) - è parimenti indubbio - come correttamente osservato dai giudici d'appello (cf, sopra, n. 1. 2 lettera A) - che nella disciplina della cittadinanza italiana libica dovesse trarsi, oltre che dalla " speciale " regolamentazione dettata dagli articoli 33-42 del regio decreto legge n. 3012 del 1934, anche da quella " generale " contenuta nella legge 13 giugno 1912 n. 555 (disposizioni in materia di cittadinanza italiana): infatti - posto dell'articolo 43 comma 1 del regio decreto legge n.3012 del 1934 disponeva che " a

" I codici  civile, commerciale e penale, quelli di procedura civile e di procedura penale, quello penale per l'esercito e penale militare marittimo e le relative disposizioni complementari in vigore nel regno sono estese di diritto alla Libia e devono esservi osservati...... salvo le modificazioni ad essi apportate con speciali disposizioni legislative "-è innegabile che la legge del 1912 sulla cittadinanza dettasse " disposizioni complementari " al codice civile del 1865, allora (1934) vigente, soprattutto se si tiene conto del decisivo rilievo che la materia della cittadinanza era stata, sull'esempio francese, originariamente disciplinata da tale codice (articoli 4-15) e solo successivamente fatto oggetto di autonoma disciplina legislativa; 3) - è, quindi, e evidente che, nel momento in cui contrasse matrimonio con cittadino tunisino (nel 1944: cfr, supra, n. 1. 1), la madre dei ricorrenti - in base al principio, secondo cui " La donna maritata non può assumere una cittadinanza diversa da quella del marito anche se esista separazione personale dei coniugi " (articolo 10 comma I della legge n. 555 del 1912) - perdette la cittadinanza italiana libica, giusta il disposto dell'articolo 10 comma 3 primo periodo della legge del 1912 (" La donna cittadina che si marita ad uno straniero perde la cittadinanza italiana, sempre che il marito possieda una cittadinanza che del fatto del matrimonio a lei si comunichi "), applicabile, come visto, anche ai cittadini italiani libici in ragione del fatto che il regio decreto legge n. 3012 del 1934 (peraltro ispirato al medesimo, predetto principio: cfr, ad esempio, articolo 33 secondo periodo) nulla disponeva in tema di perdita della cittadinanza italiana libica da parte della donna che avesse contratto matrimonio con cittadino straniero; 4) - le considerazioni che precedono - e, soprattutto, il punto (pacifico tra le parti) che la madre dei ricorrenti, a seguito del matrimonio, perdette la cittadinanza italiana libica, acquistando quella tunisina  - consentono di ritenere parzialmente irrilevante, nella fattispecie, la problematica, affrontata da questa Corte, circa lo status civitatis da riconoscere ai cittadini italiani libici, dopo la " rinuncia ad ogni diritto e titolo " dell'Italia (anche) sulla Libia (articolo 23 decreto legislativo del capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947 n. 1430, recante l'esecuzione del trattato di pace tra l'Italia e le potenze alleate ed associate, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947), a seconda che risiedessero, all'atto della costituzione del Regno Unito di Libia (7 ottobre 1951), in Italia o in Libia (cfr cassazione sentenze n. 191 del 1962, 2035 del 1967, a sezioni unite, 5487 del 1982, 5686 del 1984,1359 e 2373 del 1985, 6259 del 1986): solo " parzialmente " irrilevante, però, in quanto nelle prime due sentenze ora citate (191 del 1962 e 2035 del 1967, a sezioni unite), si afferma, con argomentazioni pienamente condivise dal collegio, che quella " italiana libica " fu vera e propria cittadinanza italiana, sia pure con particolari limitazioni nel godimento di alcuni diritti, specialmente politici, e non già uno stato di " sudditanza ".

B)-quanto ora premesso consente di affermare che appare immediatamente risolutivo, nella fattispecie, il riferimento alle sentenze della Corte costituzionale 9-16 aprile 1975 n. 87 (l'annuncio del cui dispositivo è stato pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 108 del 23 aprile 1975) e 28 gennaio-9 febbraio 1983 n. 30 (l'annuncio del cui dispositivo è stato pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 46 del 16 febbraio 1983) ed alla efficacia dalle stesse esplicarla.

Com'è noto, con la prima, la Corte - a fronte della disposizione contenuta nell'articolo 10 comma 3 primo periodo della legge n. 555 del 1912, secondo il quale " La donna cittadina che si marita ad uno straniero perde la cittadinanza italiana, sempre che il marito possieda una cittadinanza che del fatto del matrimonio a lei si comunichi "-ha dichiarato costituzionalmente illegittima, per violazione degli articoli 3 e 29 Costituzione, la norma, " nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna ". Con la seconda - a fronte, tra l'altro, dell'articolo 1 comma 1 n. 1 della stessa legge sulla cittadinanza, secondo cui " è cittadino per nascita...... 1) il figlio di padre  cittadino " - è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma, per violazione dei medesimi parametri costituzionali, " nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina ".

Sebbene tali pronunce differiscano - in ciò, che, mentre la prima elimina dall'ordinamento una delle ragioni di perdita della cittadinanza italiana, la seconda vi aggiunge un titolo del suo acquisto - ambedue, fondate su rationes decidendi  che si integrano reciprocamente (cfr., infra, lettera D), incidono sulla (previgente) disciplina legislativa dello status civitatis, operandone la reductio ad constitutionem mediante la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme, che, rispettivamente, ma in contrasto con la Costituzione, prevedevano quella ragione di perdita e non prevedevano anche quel titolo d'acquisto della cittadinanza.

C) - la questione (non nuova, salve le peculiarità delle singole fattispecie: cfr., da ultime, le sentenze n. 2 n. 6297 e 10086 del 1996 e 12061 del 1998 a sezioni unite) sottoposta all'esame di questa Corte consiste nello stabilire se nella specie - caratterizzata dalle circostanze, pacifiche, secondo cui la madre dei ricorrenti ha perduto la cittadinanza italiana libica nel 1944, in conseguenza di matrimonio contratto con cittadino tunisino; la stessa è deceduta nel 1976, senza aver reso la " dichiarazione di riacquisto " della cittadinanza, prevista dall'articolo 219 comma 1 della legge n. 151 del 1975, sulla riforma del diritto di famiglia; i suoi figli (attuali ricorrenti), che reclamano lo status di cittadini italiani anche jure sanguinis sono nati, rispettivamente nel 1944, nel 1949 e nel 1950 (cfr, supra, n. 1. 1) - esplichino, o non, e efficacia (congiunta) le ricordate pronunce di incostituzionalità.

Prescindendo, in prima approssimazione, dal tema (peraltro ancora controverso in dottrina) del limite temporale all'efficacia così detta " retroattiva " delle sentenze dichiarative dell'illegittimità costituzionale di leggi anteriori alla Costituzione - che le Sezioni Unite di questa Corte (cf sentenza n. 12061 del 1998 citata) hanno risolto, sulla base della categoria della " incostituzionalità sopravvenuta ", nel senso che i relativi effetti non possono retroagire oltre la data di entrata in vigore della costituzione stessa (1° gennaio 1948) - nessuno dubita, né in dottrina né in giurisprudenza, che la cosiddetta retroattività delle decisioni costituzionali di accoglimento incontra, comunque, il limite del " rapporto o della situazione irretrattabilmente  chiusi ", ovvero esauriti ": vale a dire della situazione o del rapporto giuridici, che-sorti, regolati o decisi in base alla legge (successivamente) dichiarata incostituzionale - non richiedano più l'applicazione di quest'ultima e  siano qualificabili come tali (cioè, chiusi o esauriti) in forza di altra e diversa norma di legge,  sulla quale perciò, indipendentemente da quella dichiarata incostituzionale, sia possibile fondare  siffatta qualificazione (ad esempio, situazioni o rapporti " esauriti " secondo la disciplina del giudicato, della prescrizione, della decadenza, delle preclusioni processuali, dell'inoppugnabilità del provvedimento amministrativo). Non è inutile ribadire che la qualificazione di un rapporto o di una situazione, siccome " esauriti ", non deve mai fondarsi sulla norma di legge dichiarata  costituzionalmente illegittima  per la decisiva ragione che, altrimenti, continuerebbe ad applicarsi - operando la predetta qualificazione, appunto, nonostante e dopo tale dichiarazione - la norma incostituzionale: e ciò, in manifesta violazione del divieto stabilito dal combinato disposto degli articoli 136 comma 1 Costituzione, 1 della legge costituzionale 1 del 1948 e 30 comma 3 della legge n. 87 del 1953 (cfr.,  e pluribus, Corte Costituzionale, sentenze n. 124 del 1996, 58 del 1967, 49 del 1970 e 139 del 1984; nonché cassazione sentenze n. 610 del 1978, n. 2634, del 1973, 3100 e  2146 del 1972, 12061 del 1998, a sezioni unite, citata).

Ed è proprio questa la violazione, immediatamente percepibile, in cui sono incorsi i Giudici d'appello. Infatti, la Corte milanese - al fine di escludere che, nella specie, potesse esplicare effetti la sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983 (recte: la sentenza n. 87 del 1975 e quindi, quella n. 30 del 1983, invocata dagli attuali ricorrenti) - ha affermato che " nel caso di specie, al prodursi degli effetti retroattivi della pronuncia di incostituzionalità si oppone il rilievo dell'esistenza di una situazione ormai esaurita, quale la perdita della cittadinanza italo libica per effetto del matrimonio con un cittadino tunisino e del conseguente acquisto della cittadinanza tunisina, il perpetuarsi di questa situazione al momento della nascita dei figli, che nacquero, quindi, da genitori entrambi tunisini, acquistando essi stessi la cittadinanza tunisina "; e che " si deve pertanto concludere...... che il rapporto di cittadinanza sia suscettibile di produrre effetti cosiddetti consolidati, in particolare ove la norma in seguito riconosciuta illegittima abbia procurato, come nella specie, l'ablazione dello status sul " (cfr., supra, n. 1. 2 lettera B). È, pertanto, evidente che i giudici a quibus -per qualificare come " situazione esaurita la perdita della cittadinanza italiana libica da parte della madre dei ricorrenti in ragione del suo matrimonio con cittadino tunisino; e per ritenere, per così dire, " irrilevante ", la pronuncia di incostituzionalità n. 30 del 1983 (recte: n. 87 del 1975) - ha erroneamente, e in immediata violazione della Costituzione, applicato, nel 1996, una norma (l'articolo 10 comma 3 primo periodo della legge n. 555 del 1912, appunto) dichiarata costituzionalmente illegittima del 1975: senza, in altri termini, fondare la predetta qualificazione su una norma, od anche su un principio, altri e diversi dalla norma incostituzionale.

D) - Proprio la palese illegittimità, per le ragioni anzidette, dell'applicazione di tale criterio di qualificazione, relativamente ad una pronuncia di illegittimità costituzionale avente ad oggetto norme di disciplina dello status civitatis, induce ad una riflessione più approfondita sul tema degli effetti di sentenze siffatte: sul problema, cioè, se la loro " naturale " efficacia retroattiva incontri, o non, il generale limite del cosiddetto  " rapporto  irretrattabilmente chiuso", ovvero "esaurito ".

Come ritiene la dottrina assolutamente prevalente, per status deve intendersi una specifica " condizione" o " posizione " della " persona ", in quanto tale e come tale riconosciuta e garantita dall'ordinamento, sia che si ponga l'accento sulla sua appartenenza, come singolo, alla comunità statale (status civitatis) ovvero ad una diversa " formazione sociale " (ad esempio, status familiae), sia che lo si ponga sulla sua qualità di individuo appartenente ad una comunità organizzata insieme ad altri, aventi la medesima condizione o posizione. Da siffatta, specifica condizione, riconosciuta e tutelata autonomamente dall'ordinamento come status - o, come pure può dirsi, da questa specifica situazione giuridica soggettiva - deriva, al suo titolare, la distinta titolarità di altri specifici diritti, doveri, obblighi, oneri (ecc.) nei confronti di altro soggetto o dell'ordinamento stesso, che quello status presuppongono (Si pensi, ad esempio ai diritti di elettorato attivo o di richiesta di referendum  abrogativo, attribuiti dagli artt. 48 comma 1 e 75 comma 1 Costituzione ai soli cittadini; al dovere di fedeltà alla Repubblica di cui all'articolo 54 comma 1 Costituzione, imposto soltanto ai cittadini; ai diritti e doveri reciproci dei coniugi nei loro rapporti e nei confronti dei figli, previsti degli articoli 143 e 147 cod. civ., ecc.; sicché - astraendo dalla dimensione dell'appartenenza comunitaria e valorizzando la "rete " delle situazione giuridiche soggettive che vi si riconnettono - lo status è stato anche definito come " sintesi ideale  di particolari atteggiamenti che assumono talora intere categorie di rapporti sociali, giuridicamente rilevanti, fra un soggetto e tutti gli altri ", ovvero come " formula verbale che riassume una normativa ").

In tale contesto dottrinale si inseriscono appieno le concezioni dello status civitatis espresse nelle due sentenze della Corte costituzionale più volte ricamate, laddove si afferma che la cittadinanza è uno " stato giuridico costituzionalmente protetto e che importa una serie di diritti nel campo privatistico e pubblicistico e inoltre, in particolare, diritti politici " (sentenza n. 87 del 1975, n.2 del considerato in diritto), e che alla stessa " si riconnettono situazioni soggettive di segno diverso e di disparato contenuto, ma tutte raggruppabili in una condizione complessivamente positiva nell'ambito dell'ordinamento italiano " (sentenza n. 30 del 1983, n.3 del considerato in diritto).

Se dunque lo status civitatis, in particolare, corrisponde alla " posizione ", che ogni individuo ha, è non può non avere, originariamente, rispetto ad una determinata comunità statale - altrimenti impensabile come ordinamento giuridico - e la cui titolarità è riconosciuta e garantita, come tale, dall'ordinamento medesimo, esso, in quanto elemento costitutivo (fra gli altri) della persona (non a caso, l'articolo 22 costituzione pone, sia pure ad altri specifici fini, la cittadinanza, insieme alla capacità giuridica ed al nome, come uno dei suoi segni distintivi fondamentali, in immediato collegamento con l'articolo 2 costituzione: cfr., in tal senso, Corte costituzionale, ordinanza 258 del 1982), è, di per sè, "inesauribile" e, perciò, anche " fonte inesauribile " della distinta titolarità di situazioni giuridiche soggettive che lo presuppongono (si può pensare, ad esempio, con riferimento all'evoluzione " costituzionale " della comunità europea, alla titolarità dello status di " cittadino dell'unione europea ", che " deriva " da quella dello status civitatis di uno degli stati membri, integra la cittadinanza nazionale e costituisce, a sua volta, la condizione della distinta titolarità di specifici diritti del " cittadino europeo ": cfr. articolo 8-8E del trattato istitutivo della comunità europea, inseriti dall'articolo G, lettera Ci del trattato sull'unione europea di Maastricht del 7 febbraio 1992).

Conseguentemente - come, ponendo l'accento sulla dimensione dello status civitatis in quanto " qualità della persona ", cui si addicono i caratteri dell'assolutezza, originalità, indisponibilità ed imprescrittibilità (cfr. articolo 2934 comma 2 cod. civ.), esso può essere fatto valere, anche in sede giurisdizionale, in ogni tempo in cui rilevi il suo accertamento o la sua tutela - così, ponendo l'accento sulla sua dimensione " comunitaria ", in quanto segno della appartenenza della persona ad una determinata comunità statale insieme ad altri cittadini, ogni modificazione dell'ordinamento giuridico che incida sulla sua disciplina non può non esplicare effetti nei confronti di tutti coloro cui compete quella " posizione ", a prescindere da ogni riferimento temporale.

A tal proposito, relativamente allo specifico tema dell'acquisto e della perdita della cittadinanza, deve sottolinearsi che quel che rileva, determinandoli, non sono già i meri eventi, naturali e non (nascita, morte, matrimonio ecc.,) che segnano la vita della persona, ma le situazioni, modalità o condizioni - prefigurate dalla legge - che li accompagnano: quel che rileva, cioè, e con riferimento alla presente fattispecie, per l'acquisto della cittadinanza cosiddetta " per nascita ", è, non già l'evento nascita, bensì la situazione di filiazione da padre o da madre cittadini; e per la perdita della cittadinanza della donna coniugata a cittadino straniero, la cui legge nazionale stabilisca che il suo status civitatis le si comunichi, è, non già l'evento matrimonio, bensì la situazione matrimoniale prevista dalla fattispecie estintiva. Ed allora, se determinanti, per l'acquisto o la perdita della cittadinanza, sono soltanto la " ragione " o " il titolo " dell'acquisto o della perdita -e non già i meri eventi che ne costituiscono unicamente i presupposti - ne consegue che giuridicamente irrilevante, al riguardo, è anche il " tempo " in cui essi sono accaduti, e cioè il " tempo " dell'acquisto o della perdita dello status civitatis.

In base alle considerazioni che precedono, può, dunque, affermarsi che la " naturale " efficacia retroattiva delle sentenze di incostituzionalità n. 87 del 1975 e 30 del 1983 (cfr, supra, lettera B non incontra il generale limite della " situazione esaurita ", per la decisiva ragione che esse incidono sulla disciplina legislativa (quella dettata dalla preveggente legge n. 555 del 1912, in partibus quibus) dello status civitatis: di uno status, appunto che, per sua natura giuridica, è sempre (ed ancora, come dimostra la presente fattispecie) " giustiziabile " e, quindi, in tal senso, "inesauribile "; almeno fintanto che su di esso non sia intervenuto un accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato " opponibile " alla efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nella specie, non è (ancora) avvenuto.

Infatti, a ben vedere, gli attuali ricorrenti hanno invocato, quale il titolo del loro acquisto della cittadinanza italiana, (anche) la situazione di filiazione da madre cittadina (italiana libica: cfr, supra, lettera a); sicché - una volta dichiarate costituzionalmente illegittime sia la norma che prevedeva la perdita della cittadinanza italiana da parte della donna cittadina " per il solo fatto del matrimonio con cittadino straniero " (cfr. sentenza n. 87 del 1975, segnatamente n.2 del cosiderato considerato in diritto), la cui legge nazionale contempli la juris communicatio della cittadinanza alla moglie per matrimonio; sia quella che non prevedeva " che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina " - l'efficacia congiunta, erga omnes, delle due sentenze di accoglimento ha inciso sulla disciplina legislativa dello status civitatis di tutte le donne (già) cittadine (che avevano perduto tale status in quanto) coniugate con cittadino straniero e di tutti i figli di madre cittadina: di tutti coloro, cioè, che, già cittadini o potenzialmente tali, avevano perduto, o non avevano acquistato, quello status esclusivamente per effetto di legge incostituzionale. I quali, dal giorno successivo alla pubblicazione delle predette sentenze della Corte costituzionale - in quanto " persone " legittimate al riconoscimento del loro status civitatis originario illegittimamente conculcato -hanno potuto incondizionatamente farlo valere in conseguenza della rimozione dell'illegittimo impedimento legislativo (a tal proposito, non è inutile rammentare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 30 del 1983, esplicitando le ragioni della decisione, ha, tra l'altro, precisato: " ...... la odierna pronuncia costituisce la logica proiezione, in tema di acquisto di cittadinanza per nascita, della ratio decidendi accolta nella sentenza n. 87 del 1975. Tale ratio, più che porre in rilievo la volontà del soggetto, consiste proprio nel riconoscimento delle conseguenze che derivano dai principi affermati nell'articolo 3, comma 1, e 29, comma 2, costituzione. Invero, anche nella fattispecie ora esaminata, ciò che si valorizza è l'esigenza di una assimilazione giuridica nella comunità statale di coloro che vengono considerati, effettivamente o potenzialmente, integrati nella realtà socio politica che l'ordinamento deve regolare ": cfr. n. 3 del considerato in diritto).

Del resto, anche autorevoli dottrine costituzionalistiche, antiche e recenti,

hanno escluso l'operatività del limite della " situazione esaurita " all'efficacia retroattiva delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale in materia di status: e ciò, sulla base, sia del generale rilievo che tale efficacia si esplica appieno nella misura in cui, e fintantochè, le situazioni giuridiche soggettive sulle quali esse incidono siano ancora " giustiziabili "; sia di quello, più specifico, secondo cui, " dato che gli status personali sono sempre suscettibili di accertamento in sede giurisdizionale, non possono essere posti ostacoli di ordine temporale alla loro rideterminazione in virtù degli effetti delle decisioni della Corte costituzionale "; sia, ancora, perché, altrimenti opinando, si giungerebbe alla conclusione, collidente con la dottrina e la giurisprudenza assolutamente prevalenti, dell'equivalenza tra effetto abrogativo ed effetti propri della dichiarazione di illegittimità costituzionale (cfr., da ultimo, cassazione n. 6297 del 1996).

E) - le argomentazioni che precedono sono sufficienti a fondare la decisione di accoglimento del ricorso, nonostante che, come è incontestato tra le parti, la madre dei ricorrenti abbia contratto matrimonio con cittadino straniero nel 1944, e nonostante che (soltanto) uno dei ricorrenti stessi sia nato nel medesimo anno (cfr., supra, n. 1. 1).

Siffatta precisazione si rende necessaria, perché, come dianzi accennato (cfr., supra, lettera C), le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 12061 del 1998 citata) - dopo aver ribadito, aderendo esplicitamente alla teoria della cosiddetta " incostituzionalità sopravvenuta ", che, " quando la pronuncia di illegittimità costituzionale abbia ad oggetto una norma contenuta in una legge o in un atto anteriore all'entrata in vigore della Costituzione e sia stata determinata dal contrasto della norma dichiarata illegittima con norme e principi propri della vigente Carta costituzionale, i suoi effetti, anche rispetto ai rapporti ancora pendenti, non possono retroagire oltre il momento in cui detto contrasto è venuto a verificarsi e, quindi, oltre il primo gennaio 1948, data di entrata in vigore della Costituzione "; ed aver precisato che " i rapporti e le situazioni sorti in data anteriore al primo gennaio 1948 rimangono assoggettati alla disciplina previgente all'emanazione della Carta costituzionale, anche se sono non consolidati, non esauriti e non irretrattabili prescindendo dalla norma dichiarata incostituzionale "- ha concluso, in fattispecie analoga alla presente, che, " con riferimento ad un matrimonio - contratto avanti il primo gennaio 1948-di una cittadina italiana con uno straniero la cui cittadinanza si comunichi alla moglie, il matrimonio ha comportato: che la donna abbia perso validamente la cittadinanza italiana, interrompendo così, definitivamente, il relativo status; che questo effetto giuridico, in sè e per sè considerato, non è stato inciso in alcun modo dalla sentenza della Corte costituzionale 87/75 e, di conseguenza, che detta sentenza, mentre non ha reso tamquam non esset la perdita della cittadinanza, ha prodotto il limitato risultato di attribuire alla donna il diritto di " riacquistare ", ove lo voglia, la cittadinanza italiana ".

Il fondamento di tale pronuncia stà, a ben vedere, nella riaffermazione di due distinti, ma connessi, principi: quello del rispetto del limite temporale di efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale, aventi ad oggetto leggi anteriori a Costituzione, in quanto integranti ipotesi di cosiddetta " incostituzionalità sopravvenuta "; e quello dell'efficacia di leggi siffatte, ritenuta dalle Sezioni Unite piena ed incondizionata prima della loro dichiarazione di incostituzionalità da parte dell' Organo cui è esclusivamente attribuita la relativa competenza, e prima del predetto limite temporale.

Può ritenersi, però, che la ratio decidendi di questa pronuncia " non vincola " il Collegio, nella fattispecie, per il decisivo rilievo che la ratio decidendi della presente sentenza stà nel diverso principio, dianzi affermato (cfr., supra, lettera D), secondo cui lo status civitatis, costituzionalmente riconosciuto e garantito come ed in quanto tale, è, per sua natura giuridica, " giustiziabilei " in ogni tempo e, quindi, in tal senso, " inesauribile ", almeno fino a quando non sia intervenuto, relativamente ad esso, un accertamento giurisdizionale definitivo " opponibile " all'efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Perciò - anche a tener conto, in adesione alla giurisprudenza ed alla dottrina assolutamente prevalenti, del rilievo, secondo cui le sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e 30 del 1983 si inseriscono nella categoria delle pronunce di accoglimento per " incostituzionalità sopravvenuta in quanto aventi ad oggetto una legge anteriore alla Costituzione - è l'oggetto specifico di tali sentenze, in quanto incidenti sulla disciplina legislativa di uno status personale costituzionalmente protetto ed avente la natura ed i caratteri giuridici dianzi precisati, che impone di qualificare il limite temporale alla loro efficacia retroattiva (primo gennaio 1948) soltanto come il dies a quo, dal quale opera la, per così dire, (ri)espansione dello status civitatis (mediante l'eliminazione di una delle ragioni della sua perdita e l'aggiunta di un titolo del suo acquisto), prima illegittimamente compresso, riconosciuta ed affermata dal Giudice delle leggi in conformità alla nuova Costituzione.

Sicchè, proprio in forza degli effetti congiuntamente esplicati dalle predette sentenze, dalla data di entrata in vigore della nuova costituzione la titolarità della cittadinanza italiana deve ritenersi riconosciuta anche alle donne (che l'avevano perduta, in quanto) coniugate con un cittadino straniero prima di tale data, nonché ai figli di madre cittadina (che non l'avevano acquistata, perché) nati anteriormente al primo gennaio 1948.

Nè, infine, a siffatta ricostruzione, è d'ostacolo quanto disposto dall'articolo 219 comma 1 della legge 19 maggio 1975 n. 151 (riforma del diritto di famiglia) - cui rinvia materialmente anche l'articolo 17 comma 2 della nuova legge sulla cittadinanza (5 febbraio 1992 n. 91) - laddove stabilisce, tra l'altro, che " la donna che, per effetto di matrimonio con straniero...... ha perduto la cittadinanza italiana prima dell'entrata in vigore della presente legge (20 settembre 1975), la riacquista con dichiarazione resa all'autorità competente...... ": infatti - sulla base delle considerazioni che precedono, e tenuto conto, in particolare, che tale disposizione è entrata in vigore successivamente alla cessazione di efficacia dell'articolo 10 comma 3 prima proposizione della legge n. 555 del 1912 (24 aprile 1975), dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 87 del 1975 (il cui dispositivo è stato pubblicato nella gazzetta ufficiale n. 108 del 23 aprile 1975) - questa Corte non può che ribadire quanto già affermato nella sentenza n. 10086 del 1996 (non contraddetto dalla pronuncia delle Sezioni unite n. 12061 del 1998), e cioè che l'unica lettura di tale disposizione, compatibile con la Costituzione e con gli effetti della pronuncia della Corte costituzionale pure richiamata, deve essere nel senso che essa disciplina unicamente le condizioni per l'esercizio dei diritti civili e politici e per l'adempimento dei doveri e degli obblighi (diritti, doveri ed obblighi " di cittadinanza "), che presuppongono la titolarità del distinto status civitatis (cfr., supra, lettera D), già incondizionatamente riconosciuta, con effetto dal primo gennaio 1948, dal Giudice delle leggi.

2. 3 ogni ulteriore profilo del ricorso deve ritenersi assorbito.

2. 4 la sentenza impugnata - che si fonda su principi opposti a quelli in questa sede affermati - deve essere pertanto annullata.

La relativa causa, peraltro - non essendo, all'evidenza, necessari ulteriori accertamenti di fatto: infatti, tutti i ricorrenti possono giovarsi degli effetti congiunti delle più volte citate sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e 30 del 1983, comunque, a far data dal primo gennaio 1948 - può essere decisa nel merito, ai sensi dell'articolo 384 comma 1 secondo periodo codice di procedura civile, nel senso dell'accoglimento della domanda introduttiva principale, dagli stessi proposta con citazione del 1988, dichiarando Neghaghi + 2, nati a Tripoli (Libia) rispettivamente il 15.3.1944, 6.5.1949 e 21.6.1950 cittadini italiani in quanto figli di madre cittadina (italiana libica).

2.5 Ai sensi del combinato disposto degli articoli 30 e 60 n. 3 del regio decreto 9 luglio 1939 n. 1938 (ordinamento dello Stato civile) deve ordinarsi la trascrizione della presente sentenza nel registro di cittadinanza a cura del competente ufficiale dello Stato civile.

2.6 La parziale novità delle questioni trattate integra giusto motivo per dichiarare compensata per intero, tra le parti,le spese dell'intero giudizio.

Per questi motivi

accoglie il ricorso per quanto di ragione. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie la domanda introduttiva principale dei ricorrenti, dichiarandoli cittadini italiani. Compensa le spese dell'intero giudizio.

Cosi deciso in Roma, gennaio 2000.