Corte di cassazione penale 29 novembre 2012 n.4. Reato di sequestro di persona e forze armate NATO.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente -
Dott. MARASCA Gennaro - rel. Consigliere -
Dott. LAPALORCIA Grazia - Consigliere -
Dott. MICHELI Paolo - Consigliere -
Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano;
nei confronti di:
M.M., C.G., P.N., D.T. R. e D.G.L.;
2) e 3) N.O.M.H., detto A.O., e G. N., parti civili;
nei confronti di:
Po.Pi., S.L., M.M., C.G., P.N., D.T.R. e D.G.L.:
4) A.M.C., nata il (OMISSIS);
5) As.Gr., nato il (OMISSIS);
6) Ca.Lo.Ga., nato il (OMISSIS);
7) Ch.Dr.Ca., nato il (OMISSIS);
8) D.J.K., nato il (OMISSIS);
9) H.R., nato il (OMISSIS);
10) Ha.Be.Am., nato il (OMISSIS);
11) L.R.S., nato il (OMISSIS);
12) Lo.Cy.Da., nata il (OMISSIS);
13) Pu.L.Ge., nato il (OMISSIS);
14) R.P., nata il (OMISSIS);
15) So.Jo., nato il (OMISSIS);
16) V.M., nato il (OMISSIS);
17) c.e., nata il (OMISSIS);
18) ca.vi., nato il (OMISSIS);
19) Gu.Jo.Th., nato il (OMISSIS);
20) K.J.R., nato (OMISSIS);
21) J.A.L., nata il (OMISSIS);
22) I.B.L., nata il (OMISSIS);
23) F.V., nato (OMISSIS);
24) ha.ja.th., nato il (OMISSIS);
25) Ro.Io.L., III, nato il (OMISSIS);
26) D.S.S., nata il (OMISSIS);
27) Po.Pi., nato il (OMISSIS);
28) S.L., nato il (OMISSIS);
29) M.M., nato il (OMISSIS);
30) C.G., nato il (OMISSIS);
31) P.N., nato il (OMISSIS);
32) D.T.R., nato il (OMISSIS);
33) D.G.L., nato il (OMISSIS);
Avverso la sentenza n. 3219/2010 emessa il 15 dicembre 2010 dalla Corte di Appello di Milano;
Visti gli atti, la sentenza denunciata, i ricorsi e gli scritti difensivi successivamente depositati;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere Dott. Gennaro Marasca;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. CEDRANGOLO Oscar, che ha concluso per la rimessione del procedimento alle Sezioni Unite Penali sulla questione del segreto di Stato; in subordine per l'annullamento della sentenza impugnata in ordine alla posizione dei ricorrenti americani, ad eccezione di Ro.Jo. ed italiani, previo stralcio della posizione di P., M., C., D.G. e D.T. con eccezione di costituzionalità della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41, fatta eccezione per Po.Pi. e S.L., con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Milano per nuovo esame; per l'annullamento senza rinvio quanto a Ro.Jo. per improcedibilità dell'azione penale per improcedibilità dell'azione penale per difetto di giurisdizione; per il rigetto dei ricorsi di Po.Pi. e S.L.; per la inammissibilità dei ricorsi di M., C. e D.T.; per il rigetto del ricorso delle parti civili nei confronti di Po. e S.;
Uditi i difensori delle parti civili e degli imputati avvocati:
1) Scambia C. per la parte civile N.O.M.H.;
2) B. L. per la parte civile G.N.;
che hanno concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
(omissis)
che hanno concluso per l'annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata;
La Corte di Cassazione:
Svolgimento del processo
1. Le imputazioni.
1.1. La Procura della Repubblica di Milano ha proceduto contro tutti i ricorrenti, fatta eccezione per Po.Pi. e S.L., per il delitto di sequestro di persona - violazione dell'art. 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, art. 605 c.p., comma 1 e comma 2, n. 2 - perchè, in concorso tra loro e con altre persone per le quali si è proceduto separatamente, nonchè con altre rimaste ignote, privavano, in via (OMISSIS), della libertà personale N.O. M.M., alias A.O., facendolo salire con la forza su un furgone, con il quale lo trasportavano prima presso la base militare aeronautica NATO di (OMISSIS) (Italia), poi presso la base NATO di (OMISSIS) e successivamente in (OMISSIS), e precisamente al (OMISSIS).
1.2. Nel capo di imputazione venivano indicate le persone che avevano partecipato alle fasi preparatorie del sequestro, consistite nello studio della zona dove doveva essere consumato, delle abitudini di A.O. e della strada più veloce per raggiungere una base NATO, individuata, infine, in quella di (OMISSIS), quelle che avevano partecipato materialmente alla consumazione del delitto e quelle che, nella qualità di componenti e/o di capi della rete CIA in Italia, avevano organizzato l'operazione; l'operazione sarebbe stata compiuta da cittadini statunitensi appartenenti alla CIA con la collaborazione di agenti del SISMI - Servizio per le informazioni e la sicurezza militare -, e di altri cittadini italiani, parte dei quali, come ad esempio Pi.Lu., sottufficiale dei ROS Carabinieri, servizio anticrimine Milano, separatamente giudicati.
1.3. A Po.Pi. veniva, invece, contestato il delitto di favoreggiamento personale di cui agli artt. 81 cpv. e 378 cod. pen., perchè, in concorso con Fa.Re. - ed agente B. -, separatamente giudicato, dopo la consumazione del sequestro in danno di A.O., aveva, con varie iniziative, di cui meglio si dirà, aiutato M.M. ed altri appartenenti al SISMI ad eludere le investigazioni dell'Autorità.
1.4. Anche a S.L. veniva contestato il delitto di favoreggiamento personale perchè consentiva al M. ed al generale pi., deceduto quest'ultimo nel corso della fase delle indagini preliminari, di utilizzare il suo telefono cellulare, che si riteneva non sottoposto ad intercettazione dalla Autorità giudiziaria, per concordare prospettazioni difensive atte a sviare le indagini, e perchè organizzava un incontro riservato tra i due allo scopo predetto.
2. Il fatto e le indagini.
2.1. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, A.O., in Italia dal 1998, godeva dello status di rifugiato politico ed era Imam nella moschea di via (OMISSIS).
All'atto del sequestro risultava indagato dalle Autorità italiane per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale ed altri reati, ma non era ricercato, perchè soltanto il 26 maggio 2005, ovvero oltre due anni dopo il sequestro, venne emessa nei suoi confronti una ordinanza del GIP di Milano di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere.
2.2. A.O. scomparve il 17 febbraio 2003; la moglie, G. N., ne denunciò la scomparsa il 20 febbraio; Re.Me., testimone oculare, riferì il 26 febbraio di avere visto il sequestro di un uomo ad opera di persone dall'aspetto occidentale, una delle quali - successivamente identificata in Pi.Lu. - parlò al cellulare.
Sulla base di tali elementi, e di altri successivamente acquisiti, tra cui telefonate intercettate tra A.O. e la moglie ed un memoriale dello stesso A.O. inviato al Pubblico Ministero, con il quale venivano descritti il sequestro e le torture subite in Egitto, si sviluppavano le indagini fondate essenzialmente sul controllo delle utenze cellulari agganciate a delle cellule ubicate nei dintorni di via (OMISSIS), luogo del rapimento.
Si individuavano, così, diciassette utenze sospette di chiamanti e chiamati, le cui carte SIM risultavano attivate tra il mese di novembre del 2002 ed il mese di gennaio 2003 e che avevano cessato di funzionare due o tre giorni dopo il sequestro.
Incrociando i dati emergenti dai tabulati telefonici dei cellulari sospetti con quelli risultanti da indagini presso alberghi della zona, dal noleggio di autoveicoli e relative contravvenzioni stradali, da prenotazioni aeree e da movimentazione di carte di credito, gli inquirenti pervenivano alla identificazione di una parte degli autori del sequestro, dei quali acquisivano anche documenti di identità e documenti vari in copia o con numero idientificativo;
inoltre seguendo i movimenti dei predetti cellulari gli inquirenti individuavano anche il percorso seguito da A.O. per lasciare l'Italia.
E attraverso i dati acquisiti presso Eurocontrol identificavano gli aeromobili utilizzati per trasportare A.O. e le rotte utilizzate fino ai punti di arrivo.
I dati acquisiti trovavano conferma anche in quelli emersi da una perquisizione domiciliare, con conseguente sequestro di alcuni oggetti, tra i quali un computer, in danno di L.R.S. ed, in particolare, da quelli emergenti dal computer dell'indagato.
Chiarivano i contorni della vicenda anche ulteriori documenti acquisiti agli atti del processo, tra i quali di particolare rilievo apparivano le sentenze emesse ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. nei confronti di Pi.Lu. e Fa.Re. e quelle di non doversi procedere nei confronti di pi. e Io., contenenti sintesi delle dichiarazioni rese da tali indagati, oltre che da re., M., pi., D.T., D.G. e C..
In particolare Pi.Lu., maresciallo dei ROS Carabinieri addetto all'antiterrorismo ed ai rapporti con la CIA ed il cui cellulare venne identificato come presente nella zona del sequestro e nel momento di consumazione del delitto, aveva confessato di avere partecipato materialmente al sequestro di A.O., fermandolo e simulando un controllo dei suoi documenti prima che egli fosse spinto nel furgone dai complici.
2.3. Sulla base degli elementi raccolti i giudici del merito accertavano, dunque, che A.O. venne sequestrato verso le ore 12.00 del 17 febbraio 2003 da un commando composto da agenti della CIA e da Pi.Lu., componente dei ROS Carabinieri di Milano, venne caricato su un furgone, trasportato all'aeroporto di (OMISSIS), portato in volo fino alla base di (OMISSIS) con velivolo Lear Jet 35, decollato alle ore 18,20, ed, infine, condotto in volo da (OMISSIS), con il Jet Executuve Gulfstream, decollato alle ore 20,30.
3. La sentenza di primo grado.
3.1. Con la sentenza emessa in data quattro novembre 2009 il tribunale di Milano condannava tutti gli imputati statunitensi - ad eccezione di C.J., Me. e Ru. per i quali dichiarava non doversi procedere per l'immunità diplomatica dagli stessi goduta - per il delitto di sequestro di persona in danno di A.O. e, previa esclusione dell'aggravante di cui all'art. 112 c.p., comma 1, n. 2, e, previo riconoscimento delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, comminava al L. la pena di anni otto di reclusione e a tutti gli altri quella di anni cinque di reclusione.
Po.Pi. e S.L. per i delitti di favoreggiamento loro rispettivamente ascritti venivano condannati alla pena di anni tre di reclusione ciascuno.
Tutti gli imputati ritenuti colpevoli venivano condannati al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili N. O.M.H., detto A.O., e G.N., con una provvisionale di un milione di Euro per A.O. e cinquecentomila Euro per la G..
3.2. Nei confronti di P., M., C., D.T. e D.G. il tribunale dichiarava non doversi procedere perchè l'azione penale non poteva essere proseguita per la esistenza del segreto di stato.
3.3. Il procedimento di primo grado risultava caratterizzato dalla pronuncia di numerose ordinanze con le quali il tribunale respingeva la richiesta di Me., F. ed ha. di revocare il decreto di latitanza, rigettava la richiesta degli imputati di escludere le parti civili A.O. e G.N., rigettava la richiesta di dichiarare inutilizzabili le dichiarazioni rese dal generale pi., deceduto nel corso delle indagini preliminari, acquisite agli atti del dibattimento ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen. e respingeva l'eccezione di incompetenza territoriale e quella di nullità del decreto che dispone il giudizio.
3.4. In ordine alla opposizione del segreto di stato il tribunale avviava la procedura prevista dall'art. 202 cod. proc. pen. e disponeva poi, su richiesta di alcune parti private, la sospensione del procedimento in attesa della definizione dei conflitti di attribuzione originati dai ricorsi della Procura della Repubblica di Milano e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonchè da quello incidentale promosso nell'interesse della sezione GIP del tribunale di Milano, conflitti che la Corte Costituzionale risolveva con la sentenza n. 106 emessa in data 11 marzo 2009, della quale si dirà più ampiamente in seguito.
Giova fin d'ora ricordare che la Corte Costituzionale annullava, per quanto di ragione ed entro i limiti espressamente posti in evidenza dalla Corte stessa, il provvedimento di perquisizione del 5 luglio 2006 ed il successivo sequestro dei documenti rinvenuti presso una sede del SISMI, annullava la richiesta di incidente probatorio, nonchè l'assunzione della prova avvenuta il 30 settembre 2006 nella parte in cui investiva i rapporti trattenuti tra servizi di intellingence italiani e stranieri in ordine alla vicenda di A. O., escludeva dalla lista venti testimoni e precisava che le conseguenze di tale annullamento sul piano processuale sarebbero state valutate dall'Autorità giudiziaria nel rispetto delle regole fissate dall'art. 185 cod. proc. pen., comma 1 e dall'art. 191 c.p.p..
In estrema sintesi può dirsi che l'area del segreto, secondo la Corte Costituzionale, non riguardava il sequestro di persona, ma concerneva tutti i rapporti tra servizi segreti italiani e stranieri, tutti gli assetti organizzativi ed operativi del SISMI, nonchè le direttive e gli ordini che sarebbero stati impartiti dal direttore del servizio agli appartenenti allo stesso, pur se tali disposizioni fossero collegate al sequestro e, quindi, alla vicenda delle extraordinary renditions.
Il tribunale, inoltre, rigettava la richiesta del Pubblico Ministero di sollevare questione di legittimità costituzionale della L. n. 124 del 2007, art. 39, nella parte in cui consente l'opposizione tardiva del segreto di stato, nonchè dell'art. 41, stessa legge, nella parte in cui il divieto di rendere dichiarazioni in violazione del segreto di stato è esteso anche all'imputato, per manifesta infondatezza di entrambe le questioni e per mancanza di rilevanza di quella concernente l'art. 39 legge citata.
3.5. Infine la difesa di Ro.Jo., colonnello dell'aeronautica degli Stati Uniti d'America di stanza ad (OMISSIS) ed addetto alla sicurezza, unitamente ad un ufficiale italiano, della base, depositava in data 23 settembre 2009 "asserzione di giurisdizione primaria formulata dal Procuratore Militare della base USAF di (OMISSIS), W.R.M., e chiedeva sentenza di improcedibilità per difetto di giurisdizione.
L'asserzione veniva disattesa dal tribunale versandosi in ipotesi di giurisdizione esclusiva dello Stato italiano, dal momento che il fatto era considerato reato soltanto in Italia, essendo la pratica delle renditions lecita negli Stati Uniti d'America; nel caso la richiesta del Procuratore militare si fosse dovuta ritenere, invece, richiesta di rinuncia al diritto di priorità riconosciuta allo Stato italiano essa sarebbe stata inammissibile perchè effettuata dopo la emissione del decreto di rinvio a giudizio.
3.6. L'affermazione di responsabilità degli imputati era fondata sugli elementi posti in evidenza nel paragrafo precedente, confortati da quelli acquisiti nel corso della istruttoria dibattimentale espletata e di cui si darà conto più approfonditamente in seguito nei limiti necessari alla discussione dei ricorsi.
Bisogna, in ogni caso, ricordare che il tribunale non utilizzava per la decisione delle posizioni degli imputati agenti del SISMI le dichiarazioni coperte dal segreto di stato, valutando in concreto le conseguenze sul piano processuale dell'annullamento disposto dalla Corte Costituzionale.
4. La decisione di appello.
4.1. Con la sentenza emessa il 15 dicembre 2010 la corte di appello di Milano, dopo avere esaminato tutti i motivi di impugnazione, debitamente riportati nella motivazione della sentenza impugnata, procedeva alla valutazione delle numerose censure formulate dagli imputati.
La corte di merito rigettava le istanze di rinnovazione parziale della istruttoria dibattimentale degli imputati Ro.Jo. e P.N., disponeva, su richiesta del Pubblico Ministero, l'acquisizione, ai sensi dell'art. 513 cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese dagli imputati M., C., D.G. e D.T. nella fase delle indagini preliminari perchè l'opposizione del segreto equivaleva a rifiuto di rispondere, salvo poi, in un momento successivo, a ritenere irrilevanti su un piano probatorio tali dichiarazioni, depurate da quanto ritenuto coperto dal segreto di stato.
Dichiaravano, inoltre, i giudici di appello manifestamente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41 sulle questioni della cd. secretazione retroattiva e della estensione dell'obbligo di astenersi dal riferire fatti coperti dal segreto anche agli imputati, tenuto conto di quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza, già richiamata, n. 106 del 2009.
Rigettava, infine, la corte di merito l'eccezione di nullità per violazione dell'art. 511 cod. proc. pen. per la mancata lettura degli atti ritenuti utilizzabili ai fini della decisione.
4.2. Superate le questioni di carattere preliminare, la corte riesaminava il merito della vicenda e, dopo avere ripercorso lo sviluppo delle indagini, esaminava alcune questioni comuni agli imputati.
In particolare, per quel che qui interessa, la corte territoriale ribadiva la correttezza della identificazione degli imputati americani e rigettava le eccezioni di nullità dei provvedimenti dichiarativi della latitanza e degli atti successivi, ribadendo, anche con puntuali riferimenti giurisprudenziali, la correttezza delle ricerche eseguite, i cui esiti negativi erano stati riportati nei verbali di vane ricerche, e negando che fosse ravvisabile una incostituzionalità per violazione dell'art. 3 nel trattamento diverso riservato agli irreperibili ed ai latitanti, trattandosi di situazioni del tutto differenti.
4.3. La corte di appello esaminava singolarmente, poi, la posizione degli imputati che avevano partecipato al sequestro, sia nella fase preparatoria che in quella esecutiva, illustrando in modo specifico gli elementi esistenti a carico di ciascuno di essi, ricordando che nessun imputato aveva contestato la legittimità delle indagini eseguite, essendosi limitati gli appellanti a contestare la sufficienza degli elementi raccolti per una affermazione di responsabilità; sul punto la corte riteneva che una considerazione unitaria degli elementi di prova raccolti rendeva legittima la condanna degli imputati.
4.4. Quanto in particolare alle posizioni di L.R.S. e D.S.S., la corte di secondo grado negava che gli stessi potessero giovarsi della immunità consolare di cui alla Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 non avendo essi operato nell'esercizio delle funzioni consolari, così come richiesto dall'art. 43 della predetta Convenzione.
4.5. La corte rigettava, come già anticipato, anche la eccezione di carenza di giurisdizione dell'Autorità giudiziaria italiana sollevata da Ro.Jo. in primo grado e riproposta in sede di appello, sul presupposto che nel caso di specie si vertesse nella ipotesi prevista dall'art. 7, comma 2, lett. B) della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 - trattato NATO/SOFA - di giurisdizione esclusiva italiana, non essendo la condotta imputata al Ro.
prevista come reato anche dalla legislazione americana, che considera - o almeno considerava tra il 2001 ed il 2006 - legittime le pratiche di extraordinary renditions, cosicchè non era ravvisabile l'elemento costitutivo della ingiustizia - wrongfully - del rapimento, necessario perchè potesse ritenersi integrato il reato previsto dall'art. 134 codice militare americano intitolato kidnapping. In ogni caso, pur non volendo accedere a tale tesi, si sarebbe comunque dovuta affermare, secondo i giudici di appello, la giurisdizione italiana in base all'art. 7, n. 3 del trattato - giurisdizione concorrente -, che prevede come ipotesi di giurisdizione concorrente prioritaria dello stato di invio quelle di reati risultanti da qualsiasi atto o negligenza compiuti nell'esecuzione del servizio (art. 7, n. 3, lett. A), non potendosi ritenere che le azioni poste in essere dal Ro. fossero state compiute nella qualità di membro dell'aviazione statunitense nell'esecuzione di un servizio.
4.6. Rilevato, infine, che tutti gli imputati erano perfettamente consapevoli della illegittimità del loro operato, non solo perchè erano a conoscenza delle attività investigative della DIGOS e della magistratura italiana su A.O. con le quali avrebbero interferito, ma anche perchè sapevano che la pratica delle renditions era illegittima ed illecita in Italia, che i principi in materia di segreto non potevano giovare agli imputati americani non tanto perchè non erano italiani, ma perchè il sequestro di A. O. non era coperto da segreto, essendo coperte da segreto soltanto alcune fonti di prova non rilevanti per la posizione degli imputati americani, che la tesi della applicabilità della esimente di cui all'art. 51 cod. pen., anche sotto il profilo dell'art. 59 c.p., non poteva trovare accoglimento perchè gli ordini eventualmente ricevuti dagli imputati erano illegittimi per l'ordinamento italiano, la corte negava agli imputati le attenuanti generiche riconosciute in primo grado e riteneva sussistente l'aggravante prevista dall'art. 605 c.p., comma 2, n. 2 per la partecipazione alla operazione del Pi., maresciallo dei ROS dei Carabinieri, nonchè quella prevista dall'art. 112 c.p., comma 1, n. 1, avendo partecipato al sequestro un numero di persone superiore a cinque.
Conseguentemente la corte infliggeva agli imputati americani una pena superiore a quella loro inflitta in primo grado e precisamente anni nove di reclusione a L.R.S. ed anni otto di reclusione a ciascuno degli altri imputati statunitensi.
4.7. Con riferimento alla posizione degli imputati italiani agenti del SISMI la corte di merito ricordava le statuizioni della Corte Costituzionale ed il fatto che non era impedito al Pubblico Ministero di indagare sulla notitia criminis e di esercitare l'azione penale, ma che era impedito all'autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto, potendo la stessa Autorità giudiziaria giovarsi di altri elementi indipendenti da quelli coperti dal segreto.
La corte di appello ricordava, inoltre, che l'ambito del segreto si era via via esteso fino alla nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri che aveva apposto il segreto su tutti gli accordi e le direttive, anche se riferibili al sequestro di A.O. - fatto che, secondo il giudice delle leggi, non poteva essere ritenuto eversivo dell'ordine costituzionale - e che la Corte Costituzionale aveva ritenuto legittima anche l'apposizione tardiva del segreto, ovvero l'apposizione dello stesso su atti, documenti e notizie nel frattempo divenuti pubblici.
4.8. Sulla base di tali principi la corte di appello riteneva che l'opposizione e la conferma del segreto avevano creato una sorta di indecidibilità perchè sul materiale probatorio raccolto era calato un "sipario nero".
Conseguentemente nei confronti degli imputati P., M., D.T., C. e D.G. veniva confermata la declaratoria di improcedibilità dell'azione penale ai sensi dell'art. 202 cod. proc. pen..
4.9. La sentenza di primo grado, quanto alla affermazione di responsabilità, veniva confermata nei confronti di Po.Pi. e S.L..
La corte rigettava l'eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche sollevata dal Po. e dal S. e ribadiva che nei loro confronti non era opponibile alcun segreto di stato, non tanto per la cesura temporale - circa tre anni - tra il sequestro e le condotte favoreggiatrici poste in essere dagli imputati, ma, principalmente, per quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, secondo la quale non erano sottoposti a segreto i fatti-reato, ma le fonti probatorie degli stessi; ebbene nel caso di specie si trattava di fonti probatorie autonome, tanto è vero che le condanne erano fondate sugli esiti delle intercettazioni telefoniche e anche, per quanto riguarda Po.Pi., sulle dichiarazioni di Fa.Re., non qualificabile come appartenente al SISMI, e su deposizioni testimoniali, che non riguardavano affatto i rapporti tra i servizi italiani e quelli stranieri.
La pena principale inflitta in primo grado a Po.Pi. e S. L. veniva ridotta a due anni e otto mesi di reclusione, mentre quella accessoria veniva confermata.
4.10. Infine la corte di appello si occupava delle eccezioni di inammissibilità della costituzione delle parti civili.
Rigettava quella concernente la pretesa invalidità della procura rilasciata da A.O., posto che la stessa era avvenuta nel pieno rispetto della lex loci egiziana - autentica di un notaio egiziano, la cui firma era legalizzata dal competente Ministero di quel Paese e trasmessa all'Autorità consolare italiana per l'ulteriore inoltro nel nostro Paese -; tale procedura era ritenuta corretta perchè conforme alla L. 31 maggio 1995, n. 218 (art. 12) ed all'orientamento della corte di Cassazione (S.U. ord. n. 3410 del 13 febbraio 2008).
Non ravvisava, inoltre, la corte di merito la violazione dell'art. 78 c.p.p., lett. d), tenuto conto dello stretto collegamento tra il fatto reato descritto nel capo di imputazione ed i danni lamentati dalle parti civili.
Infine la corte territoriale riteneva che dalle condotte favoreggiatrici poste in essere da Po.Pi. e S.L. le parti civili non avessero in concreto subito danni e, pertanto, revocava la condanna di questi due imputati al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili A.O. e G.N..
5. Il ricorso del Procuratore Generale.
5.1. Il Procuratore Generale presso la corte di appello di Milano proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, limitatamente alla statuizione di conferma del proscioglimento ai sensi dell'art. 202 c.p.p., comma 3 degli imputati P. N., M.M., C.G., D.T.R. e D.G.L., nonchè, ai sensi dell'art. 586 cod. proc. pen., avverso le ordinanze emesse dalla corte di appello di Milano il 22 e 26 ottobre 2010, con le quali erano state dichiarate inutilizzabili le dichiarazioni rese dagli imputati C., M., D.T. e D.G. nella fase delle indagini preliminari.
5.2. Dopo avere premesso le conclusioni alle quali erano pervenuti i due giudici di merito in punto segreto di stato, e rilevato che era ravvisabile nelle motivazioni dei provvedimenti un duplice errore consistente nel "non avere correttamente individuato quanto oggetto di effettiva segretazione da parte della Presidenza del Consiglio" dei Ministri e "nell'avere effettuato una lettura solo in parte condivisibile della pronuncia del Giudice delle leggi", il Procuratore ricorrente deduceva:
1) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla L. n. 124 del 2007, art. 41, art. 202 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. e). Il Pubblico Ministero ricorrente, dopo avere chiarito che per operazione si sarebbe dovuta intendere l'azione degli agenti del SISMI rientrante nei compiti funzionali che avesse ricevuto copertura formale, ovvero fosse stata autorizzata dai vertici del servizio, ed avere precisato che la Corte Costituzionale aveva effettuato un controllo di legittimità della apposizione del segreto da parte della Presidenza del Consiglio, chiarendo che il segreto avrebbe potuto essere legittimamente opposto e confermato sulle fonti di prova, anche inerenti il sequestro di A.O., connesse alle relazioni tra i servizi di informazione italiani e quelli stranieri ed avrebbe potuto riguardare anche singole specifiche operazioni, realizzate congiuntamente da appartenenti al SISMI ed alla CIA, oltre agli assetti organizzativi ed operativi del SISMI, sosteneva che per delimitare l'area del segreto era necessario fare riferimento agli atti di apposizione dello stesso. L'esame degli atti di segretazione rendeva evidente che il Governo italiano aveva escluso responsabilità proprie e dei servizi di informazione nel sequestro di A.O., cosicchè doveva escludersi che il SISMI avesse avuto rapporti con altri servizi in ordine a tale fatto e che si fosse trattato di una operazione congiunta autorizzata dai vertici del SISMI. In effetti, secondo il ricorrente, si sarebbe trattato di iniziative di singoli agenti al di fuori dei compiti istituzionali ed in assenza di rapporti tra servizi, cosicchè si sarebbe trattato di attività non coperte da segreto. Rilevato, infine, che un sequestro di persona non avrebbe potuto mai essere autorizzato dai vertici dei servizi, il ricorrente sosteneva che comportamenti di collaborazione al sequestro posti in essere da singoli funzionari del SISMI al di fuori di qualsiasi legittimo con la funzione istituzionale del Servizio non avrebbero potuto essere ritenuti coperti dal segreto di stato.
2) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione agli artt. 185, 191 e 202 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e L. n. 124 del 2007, art. 41.
Il ricorrente, premesso che la Corte Costituzionale aveva proceduto all'annullamento di alcuni atti ed aveva demandato all'Autorità giudiziaria di verificare, ai sensi degli artt. 185 e 191 cod. proc. pen., la concreta incidenza sul piano probatorio di siffatti annullamenti, contestava alla corte distrettuale di avere effettuato sul punto una disamina oltremodo sommaria pervenendo alla conclusione che le prove a carico degli agenti del SISMI erano coperte da un "sipario nero" che impediva l'accertamento di ogni responsabilità penale. Tenuto conto della delimitazione dell'area del segreto indicata con il primo motivo di impugnazione, e del fatto che non potevano ritenersi coperti dal segreto di Stato i collegamenti con le attività illegali della CIA, che avevano caratterizzato le condotte dei funzionari del SISMI, al di fuori delle relazioni istituzionali tra i due servizi, non esistendo alcuna operazione congiunta tra i due servizi, il ricorrente metteva in evidenza gli errori commessi dalla corte distrettuale nella valutazione delle dichiarazioni di Pi.Lu., D'.St. e pi.gu. (in relazione alle dichiarazioni di quest'ultimo mancava del tutto la motivazione) e sosteneva che l'attività di P., M. e pi. non era riconducibile alla azione istituzionale dei servizi. Identiche censure riguardavano la intercettazione della conversazione telefonica del giorno 1/6/2006 tra M. e pi. e la intercettazione ambientale del 2 giugno 2006 relativa al colloquio M. - pi., dal primo nascostamente registrato.
In conclusione le parti utilizzabili di tali atti istruttori, secondo il ricorrente, avrebbero legittimato una affermazione di responsabilità in ordine al sequestro di A.O. di P. e M..
3) la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione alla L. n. 124 del 2007, art. 41, artt. 185, 191 e 202 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 586 cod. proc. pen..
Per le stesse ragioni indicate nei motivi precedenti il ricorrente si doleva della ritenuta inutilizzabilità - ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010 - delle dichiarazioni, sostanzialmente confessorie, rese nella fase delle indagini preliminari dagli allora indagati M., C., D.G. e D.T..
6. Il ricorso delle parti civili.
6.1. Le parti civili N.O.M.H., detto A.O., e G.C., tramite i loro difensori di fiducia, proponevano ricorso per cassazione avverso il proscioglimento di M.M., P.N., C.G., D.T.R. e D.G.L. e contro la revoca della condanna di P. P. e S.L. al risarcimento dei danni in favore di esse parti civili e deducevano, quanto alla dichiarazione di non doversi procedere per il reato di cui al capo A):
1) la errata interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale e la violazione di legge.
I ricorrenti, nel condividere sostanzialmente la linea del Procuratore generale ricorrente, esaminavano i ricorsi e la decisione della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione da menomazione tra poteri dello Stato, precisando, tra l'altro, che la decisione era destinata a definire la concreta competenza, ma non a risolvere questioni di costituzionalità, sicchè certamente ammissibile era la eccezione di incostituzionalità relativa alla L. n. 124 del 2007, art. 41 sollevata dal Pubblico Ministero in grado di appello.
I ricorrenti ponevano in evidenza che la Corte Costituzionale aveva stabilito che l'apposizione del segreto inibiva all'Autorità Giudiziaria la utilizzazione delle notizie coperte da segreto, ma non l'esercizio dell'azione penale in base ad altri ed autonomi elementi;
che appariva ambigua la nozione di non irrilevanza della apposizione tardiva del segreto adottata dalla Corte; che quest'ultima aveva, altresì, escluso che le cd. consegne straordinarie, ovvero i sequestri attuati con la finalità di trasferire il rapito in altri continenti, pur essendo penalmente illecite, presentassero natura eversiva dell'ordine costituzionale; che il segreto poteva essere legittimamente apposto e coprire anche atti posti in essere da singoli agenti, ma, secondo i ricorrenti, soltanto se posti in essere in relazione a specifiche operazioni assentite legittimamente dai servizi italiani.
I giudici del merito avrebbero male interpretato la sentenza della Corte Costituzionale ravvisando un'area di immunità per gli agenti del SISMI, non esistente, invece, in ipotesi di partecipazione ad operazioni non assentite dai dirigenti del SISMI, ed omettendo di compiere una valutazione puntuale degli atti non utilizzabili.
2) la illogicità della motivazione, essendo il fatto commesso dagli imputati illegale, anche in virtù di deliberazioni di organismi internazionali, e, quindi, non giustificabile in alcun modo.
3) la errata interpretazione degli interna corporis, coperti da segreto, dovendosi riferire tale concetto agli assetti organizzativi del SISMI ed agli ordini impartiti dal Direttore agli appartenenti all'organismo e non a dichiarazioni che riguardassero altri e diversi aspetti. Cosicchè dal momento che gli atti posti in essere dagli imputati in relazione al rapimento di A.O. non rientravano negli atti di ufficio degli stessi, non era possibile ricondurre tali atti al concetto di interna corporis coperti dal segreto, tanto più che a norma della L. n. 124 del 2007, art. 17 tali atti, che non erano mai stati autorizzati da alcuno, mai avrebbero potuto essere autorizzati.
4) la erronea interpretazione della corte territoriale del concetto di atti di ufficio degli agenti del SISMI, nel quale non potevano rientrare molte fonti di prova erroneamente ritenute coperte dal segreto, come ad esempio la registrazione del colloquio M. - pi., trattandosi di conversazione tra due soggetti che interagivano al di fuori del servizio e in relazione a fatti costituenti reato.
5) la mancata valutazione nella sentenza impugnata della idoneità della azione rivelatrice di notizie coperte da segreto a ledere la integrità e funzionalità dell'apparato di difesa dello Stato, considerando, anche, che le notizie divulgate erano già di pubblico dominio; sul punto i ricorrenti richiamavano giurisprudenza di questa Corte di Cassazione e giurisprudenza della Corte di Strasburgo in ordine alla interpretazione degli artt. 6 e 13 CEDU e chiarivano che molte fonti di prova ritenute coperte da segreto avevano costituito oggetto di una notevole diffusione mediatica.
6.2. Con riferimento alla revoca della condanna di Po.Pi. e S.L. al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, queste ultime deducevano la manifesta illogicità della motivazione essendo esse vittime del reato di favoreggiamento in quanto titolari di un diritto alla verità e alla individuazione dei colpevoli contrastato dalla condotta degli imputati.
6.3. Con una successiva nota difensiva, depositata il 23 maggio 2012, la difesa della parte civile G.C. segnalava di avere presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell'uomo con richiesta di trattazione urgente ai sensi dell'art. 41 del Regolamento della Corte lamentando la violazione degli artt. 3, 5, 6, 8 e 13 della CEDU derivante dalla applicazione, nel presente processo, del segreto di Stato a tutto il materiale probatorio suscettibile di confermare la responsabilità penale degli agenti del SISMI in ordine al sequestro di A.O..
L'esponente comunicava che era stata accolta la richiesta di trattazione urgente del ricorso, che appariva oramai prossima.
7. I motivi di ricorso di Ro.Jo.L.II..
7.1. Con il ricorso per cassazione Ro.Jo.L.II., tramite il proprio difensore di fiducia, deduceva i seguenti motivi di impugnazione:
1) la nullità del decreto che dispone il giudizio e degli atti conseguenti.
Il ricorrente, dopo avere puntualmente elencato tutti gli atti di riferimento, denunciava la nullità assoluta che si era verificata per la omessa notifica, tra gli altri, del decreto che dispone il giudizio, emesso il 16 febbraio 2007 dal GUP presso il tribunale di Milano e di tutti gli atti seguenti. Premesso che il Ro., che all'epoca dei fatti prestava la sua attività come militare statunitense presso la base di (OMISSIS) e dimorava in Italia, dopo il rapimento di A.O. venne destinato ad altro incarico negli Stati Uniti d'America, circostanza risultante dagli atti processuali, il ricorrente denunciava la riduttiva ed errata applicazione del trattato di mutua assistenza in materia penale (MLAT) tra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d'America del 9 novembre 1982, recepito con la L. 26 maggio 1984, n. 224 che andava integrato dalle norme generali del codice di procedura penale - art. 169 cod. proc. pen., come prescritto dall'art. 696 cod. proc. pen., comma 2 -, per garantire l'effettiva informazione all'indagato onde consentirgli l'esercizio del diritto di difesa. Lamentava, inoltre, il Ro.
la violazione dell'art. 727 cod. proc. pen., comma 4 per non avere l'Autorità giudiziaria italiana provveduto all'inoltro della rogatoria all'agente diplomatico o consolare.
Denunciava, infine, il ricorrente che il decreto di irreperibilità era stato emesso in carenza delle ricerche prescritte dall'art. 159 cod. proc. pen., ricerche da effettuare anche all'estero, e la illegittimità del decreto di latitanza, e del conseguente decreto che dispone il giudizio, non essendosi il Ro. mai sottratto volontariamente ad alcun provvedimento, essendo stato, invece, destinato ad altro incarico.
Con i motivi aggiunti, depositati il 24 maggio 2012, il ricorrente, che richiamava anche numerosi precedenti della Corte EDU che avevano visto l'Italia soccombente specialmente con riferimento alla celebrazione del processo in absentia e che ricostruiva anche le modifiche legislative introdotte - art. 175 cod. proc. pen. - per conformare la legislazione italiana a quella internazionale in materia di diritto di difesa, denunciava la violazione delle norme internazionali - art. 14 par. 3 -, poste dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR) in tema di fair trial adottato dall'ONU, e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) - art. 6 - a garanzia dell'equo processo e ricordava l'obbligo del giudice di interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale o di sollevare questione di legittimità costituzionale al fine di verificare la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma processuale italiana rispetto alla norma interposta. La corte milanese non aveva rispettato le norme internazionali mortificando il diritto di difesa del Ro..
2) La erronea applicazione dell'art. 7 della Convenzione NATO/SOFA firmata a Londra il 19 giugno 1951 e resa esecutiva in Italia con L. 30 novembre 1955, n. 1335 quanto all'affermato carattere esclusivo della giurisdizione italiana sul colonnello Ro..
In effetti trattavasi di fatto - sequestro di persona e kidnapping - previsto come reato, e, quindi, astrattamente punibile in entrambi gli stati - di invio e di residenza -, cosicchè correttamente il colonnello W., procuratore militare, il 22 settembre 2009, aveva rivendicato - con la formulazione di sua asserzione - la giurisdizione primaria americana, come previsto dall'art. 7, par. 3, lett. a, n. 11 del citato trattato.
Il ricorrente censurava la decisione della corte di appello, che aveva escluso la giurisdizione americana sul presupposto che i fatti di extraordinary renditions non fossero considerati reati nella legislazione americana, esistendo, invece, un'area delle renditions non coperta da liceità perchè non rispettosa delle norme che disciplinano l'istituto.
3) La erronea interpretazione dell'art. 7 del trattato NATO/SOFA quanto alla affermata carenza del requisito della commissione del fatto nell'esercizio del servizio, dal momento che è necessario e sufficiente ai fini delle individuazione della giurisdizione il dato oggettivo della correlazione della condotta con il servizio svolto, condizione certamente esistente nel caso di specie, essendo all'epoca dei fatti il Ro. responsabile della sicurezza della base di (OMISSIS).
4) La omessa motivazione sulla presenza di giurisdizione prioritaria statunitense in presenza di concordi affermazioni delle autorità italiane e statunitensi e la erronea interpretazione dell'art. 7 SOFA e D.P.R. n. 1666 del 1956, art. 1 perchè l'autorità giudiziaria si sarebbe dovuta adeguare alla decisione sulla appartenenza della giurisdizione presa, nel caso di specie, dagli organi competenti statunitensi ed italiani in base al trattato.
5) Con i motivi aggiunti il ricorrente, come motivo subordinato in caso di mancato accoglimento dei motivi 2, 3 e 4, eccepiva la incostituzionalità del D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, art. 1, commi 2, 4, 6 e 8, per violazione del parametro costituzionale, costituito, in forza dell'art. 117 della Costituzione, dall'art. 7, par. 3, lett. c) e dall'art. 16 della Convenzione tra gli stati dell'Atlantico del Nord relativo allo statuto delle loro forze, firmato a Londra il 19 giugno 1951 (cd. NATO/SOFA). Il ricorrente, dopo avere ricordato il metodo per l'adattamento delle norme internazionali pattizie nell'ordinamento italiano, indicava la rilevanza del D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, art. 1, commi 2, 4, 6 e 8, che contiene norme di adattamento del citato trattato, per la definizione del presente procedimento, ed individuava due profili di illegittimità costituzionale: a) il D.P.R. citato omette di regolare il caso in cui lo Stato di invio manifesti la volontà di esercitare la propria giurisdizione attraverso l'asserzione del diritto primario all'esercizio della stessa e, conseguentemente, omette di regolare, in modo espresso, il caso in cui lo stato ricevente manifesti la decisione di non esercitare la propria giurisdizione, attraverso l'accettazione dell'asserzione; b) il D.P.R. citato attribuisce al giudice il potere di cognizione in tema di ammissibilità e validità della rinuncia, mentre, invece, si sarebbe dovuta riconoscere la prevalenza del potere attribuito al Governo, in ossequio a quanto stabilito dal trattato.
6) La violazione degli artt. 191, 696 e 729 cod. proc. pen. in relazione alla L. 30 novembre 1955, n. 1335, art. 7, par. 6, lett. a) e al D.P.R. n. 1666 del 1956, art. 8, comma 2, come richiamati dalla Circolare del Ministero di Grazia e Giustizia n. 786/357 del 25 marzo 1957, par. 3, lett. cc), nonchè all'art. 239 cod. proc. pen., essendo inutilizzabile un documento - tabulato telefonico senza intestazione, senza firme e senza indicazione circa la sua provenienza -, in base al quale era stata attribuita in uso al Ro. l'utenza cellulare (OMISSIS) intestata all'ufficio comando del 31 SFS di stanza ad (OMISSIS), ricevuto non si sa come, e, comunque, senza richiesta (- che sarebbe dovuta provenire dalla Procura Generale - scritta all'USAF, come richiesto dal trattato NATO/SOFA, che prevede reciproca assistenza), dal maresciallo dei carabinieri T.D. ed acquisito agli atti del processo.
7) Con i motivi aggiunti il ricorrente indicava nuovi profili di inutilizzabilità del tabulato con riferimento alla violazione del trattato Nato sulle modalità di richiesta e consegna di documenti, dell'art. 195 cod. proc. pen. per mancata indicazione della fonte e conseguente mancata assunzione della stessa e per violazione del predetto art. 195, comma 7.
8) La violazione dell'art. 495 c.p.p., comma 2, artt. 507 e 603 cod. proc. pen., essendo illegittima l'ordinanza della corte di appello di Milano, Sezione 3, del 18 ottobre 2010, con la quale era stata rigettata la richiesta della difesa di parziale riapertura del dibattimento per escutere i testimoni - prova ritenuta decisiva - tenenti colonnelli Q. e W., oltre al T., al fine di verificare il rispetto delle norme previste dal trattato ed individuare la fonte presso l'Usaf;
9) La violazione di legge processuale - art. 181, art. 178, lett. b), art. 416, art. 417, lett. b) e c) e art. 429, lett. c) e d), nonchè art. 202 cod. proc. pen. a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 106/2009 - per nullità sopravvenuta della richiesta di rinvio a giudizio e del conseguente decreto che lo dispose e degli atti conseguenti, compresa la sentenza impugnata, per essere gli stessi privi di motivazione, non essendo utilizzabili le dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio dal maresciallo Pi. concernenti le presunte responsabilità del Ro., non potendosi più parlare di operazione di intelligence, essendo stata esclusa dalla Corte Costituzionale la conoscibilità dei rapporti CIA- SISMI. Con i motivi aggiunti il ricorrente portava ulteriori argomenti alla tesi della nullità del decreto che aveva disposto il giudizio e censurava la motivazione della sentenza impugnata sul punto.
Il ricorrente poi censurava la valutazione dei residui presunti indizi a suo carico operata dai giudici di appello.
10) La carenza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza di prove del concorso materiale nel sequestro a carico del ricorrente ed alla esistenza dell'elemento soggettivo, ovvero della consapevolezza dell'arrivo di A.O. ad (OMISSIS).
Il ricorrente, dopo avere ricordato le censure alla sentenza di primo grado, denunciava che alle stesse la sentenza impugnata non aveva fornito risposta. In particolare non risultava provato l'uso della utenza cellulare dinanzi indicata da parte del ricorrente, non era conosciuto il contenuto delle tre telefonate ricevute da tale utenza il 17 febbraio 2003, era ignoto il contenuto della telefonata a (OMISSIS), non era stato considerato che la sorveglianza della base era assegnata agli americani ed agli italiani, comandati dal colonnello Sc., ed era del tutto improbabile che i sequestratori avessero preannunciato l'arrivo di A.O., essendo l'operazione segreta. In siffatta situazione non si poteva assolutamente ritenere il Ro. colpevole oltre ogni ragionevole dubbio.
Con i motivi aggiunti il ricorrente indicava ulteriori profili di ritenuta manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.
11) La violazione dell'art. 27 Cost., art. 133 c.p. e art. 62 bis c.p., art. 605 c.p., n. 2 e art. 112 c.p., n. 1 per illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla commisurazione della pena.
Infine il ricorrente chiedeva la revoca della misura cautelare ai sensi dell'art. 624 bis cod. proc. pen..
8. Il ricorso di c.e., ca.vi., G. J.T., K.J.R., J.A.L. e I.B.L..
8.1. I ricorrenti c.e., ca.vi., G. J.T., K.J.R., J.A.L. e I.B.L., tramite il difensore di ufficio, con un unico ricorso, deducevano i seguenti motivi di impugnazione:
1) la violazione degli artt. 296, 295, 165, 169, 179 e 185 cod. proc. pen., essendo stati irritualmente dichiarati latitanti, con conseguente nullità delle notificazioni dei successivi atti, ivi compresi la vocatio in ius e la dichiarazione di contumacia.
I ricorrenti, che ricordavano di essere stati accusati di avere partecipato alla fase preparatoria del sequestro e di avere lasciato l'Italia, fatta eccezione per la I., prima che il delitto venisse compiuto, rilevavano che, trattandosi di cittadini stranieri, le ricerche, in applicazione analogica dell'art. 169 cod. proc. pen., si sarebbero dovute effettuare anche all'estero, nel Paese di residenza, risultando dalle copie dei documenti di riconoscimento in possesso degli inquirenti i recapiti degli indagati, non essendo possibile, in assenza di tali ricerche ed in considerazione del fatto che la misura cautelare era stata emessa il 23 luglio del 2005, ovvero dopo circa due anni e mezzo dal fatto, presumere la volontaria sottrazione dei ricorrenti alla esecuzione della misura cautelare;
2) la violazione dell'art. 110 cod. pen. e artt. 192, 533 e 546 cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta responsabilità a titolo di concorso nel reato dei ricorrenti per errata valutazione degli indizi e per la impossibilità di ricostruire la condotta contestata.
I ricorrenti, dopo avere ricordato di essere stati accusati di avere compiuto attività preparatorie al sequestro, rilevavano che non vi era stata alcuna differenziazione delle posizioni, dal momento che erano stati considerati come facenti parte di un gruppo.
Negavano poi che gli indizi, consistenti nella presenza dei cellulari che avrebbero avuto in uso nella zona del sequestro, nella presenza in alberghi unitamente a persone che avevano materialmente effettuato il sequestro ed al collegamento telefonico con questi ultimi, potessero essere considerati precisi e gravi, essendo, invece, possibili ricostruzioni alternative, proprio per la ritenuta comune appartenenza alla CIA. 3) le stesse violazioni di cui al punto due con particolare riferimento alle posizioni della I. e di Gu. perchè si erano trattenuti a (OMISSIS) pochi giorni e gli elementi a carico consistevano soltanto nella presenza in albergo con altre persone coinvolte nel sequestro e, per la I., in due rilevazioni nella cella della zona ove avvenne il sequestro.
4) la violazione degli artt. 66 e 349 cod. proc. pen. perchè la identificazione dei ricorrenti era avvenuta sulla base di una mera registrazione alberghiera, tranne che per K. e I., per i quali esisteva una fotocopia del loro documento, anche essa, comunque, insufficiente per pervenire ad una identificazione certa;
non era mai stata, peraltro, verificata l'autenticità dei documenti presso le autorità statunitensi.
5) la violazione dell'art. 51 cod. pen. e art. 202 cod. proc. pen.. I ricorrenti, dopo avere ricordato le vicende relative alla opposizione ed apposizione del segreto, rilevavano che il segreto concerneva i rapporti tra i servizi segreti dei due Stati e, quindi, non appariva possibile ricostruire con precisione proprio le attività preparatorie al sequestro, che avrebbero visto la collaborazione tra gli agenti della CIA e quelli del SISMI, Insomma lo sbarramento probatorio imposto dalla Corte Costituzionale avrebbe impedito anche l'analisi e la salutazione del segmento di condotta attribuito ai ricorrenti.
Con i motivi aggiunti depositati il 24 maggio 2012 i ricorrenti indicavano ulteriori argomenti a sostegno della ritenuta violazione dell'art. 202 cod. proc. pen., sostenendo, in particolare, che, essendo le fonti di prova coperte da segreto, proprio la fase della preparazione del sequestro, che avrebbe visto all'opera agenti italiani ed americani, non si era potuta approfondire per verificare le singole e specifiche responsabilità, non potendosi affermare, peraltro, che il quadro probatorio nei confronti degli americani fosse del tutto autonomo.
I ricorrenti, inoltre, rilevavano di avere agito in adempimento di un dovere per avere ricevuto ordini, la cui legittimità sarebbe emersa proprio da un approfondimento dei rapporti tra i due servizi.
Anche su tale punto i ricorrenti ritornavano con i motivi aggiunti e rilevavano che lo sbarramento probatorio non aveva consentito di valutare gli elementi della esimente dell'adempimento del dovere.
Sostenevano, infatti, che, anche a volere escludere la sussistenza della esimente di cui all'art. 51 cod. pen., si sarebbe dovuta ritenere sussistente la ipotesi putativa di cui all'art. 59 cod. pen., comma 3 perchè la collaborazione dell'agenzia italiana nella operazione avrebbe indotto i ricorrenti a ritenere legittima la consegna straordinaria.
6) la violazione degli artt. 62 bis, 132 e 133 c.p., art. 605 c.p., comma 2, n. 2, art. 59 cod. pen. per la errata commisurazione della pena, ritenuta eccessiva, e per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche per avere omesso la corte di merito la valutazione di diversi aspetti.
7) la violazione dell'art. 605 c.p., comma 2, n. 2 perchè non vi era alcun elemento dal quale fosse possibile desumere la qualità di pubblico ufficiale del Pi., nè era possibile ritenere, non avendo i ricorrenti nemmeno partecipato materialmente al sequestro, che sapessero della partecipazione del Pi..
8) la violazione degli artt. 78 e 100 cod. proc pen. per nullità della ammissione delle parti civili per il mancato rispetto delle procedure di autenticazione delle firme delle parti lese.
Con i motivi aggiunti i ricorrenti eccepivano la nullità della costituzione delle parti civili per violazione degli artt. 78 e 100 cod. proc. pen. e del T.U. n. 445 del 2000, art. 33 perchè per la efficacia della procura alle liti rilasciata da A.O. con scrittura privata in uno Stato straniero era necessaria l'autenticazione della firma da parte di persona abilitata e la legalizzazione da parte del console italiano o di autorità diplomatica finalizzata ad attestare la funzione del soggetto certificante. Non avendo l'Egitto ratificato la Convenzione dell'Aja sulla ed apostille, per la legalizzazione si sarebbe dovuta rispettare la procedura prevista dalla convenzione tra Italia ed Egitto del 3 dicembre 1977, ratificata con L. 24 ottobre 1980, n. 764 - artt. 8 e 10 -, che imponeva al console italiano di autenticare la firma del notaio egiziano, mentre il console italiano aveva legalizzato la firma del funzionario del Ministero della Giustizia, che a sua volta aveva autenticato la firma del segretario generale dello stesso Ministero, che aveva autenticato la firma del notaio.
9. Il ricorso di A.M.C., As.Gr., Ca.Lo.Ga., Ch.Dr.Ca., D.J. K., H.R., Ha.Be.Am., L.S.R., Lo.Cy.Da., Pu.L.Ge., R.P., So.
J. e V.M..
9.1. A.M.C., As.Gr., C. L.G., Ch.Dr.Ca., D.J.K., H.R., Ha.Be.Am., L.R.S., Lo.Cy.Da., Pu.L.Ge., R.P., So.
J. e V.M., tramite il loro difensore di ufficio, proponevano ricorso per cassazione e deducevano i seguenti motivi di impugnazione:
1) la violazione dell'art. 66 c.p.p., comma 2, art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., comma 1, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 605 cod. proc. pen. e art. 111 Cost. perchè la identificazione dei ricorrenti era avvenuta attraverso la registrazione effettuata presso alcuni alberghi e le fotocopie di documenti, spesso illeggibili, senza che vi fossero, quindi, elementi dai quali si potesse evincere la certezza della identità fisica degli imputati e senza che fossero state attuate altre modalità di identificazione.
Si tratta di motivo sostanzialmente identico a quello proposto dai ricorrenti di cui al paragrafo precedente.
2) La violazione dell'art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., comma 1, artt. 546 e 605 cod. proc. pen. e art. 111 Cost. ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dei ricorrenti. Questi ultimi criticavano le modalità di esecuzione delle indagini, la valutazione delle dichiarazioni rese da Re.
M., che, comunque, aveva escluso che vi fosse stato uso di violenza nei confronti di A.O. per convincerlo a salire sul furgone. Denunciavano, inoltre, il vizio della motivazione in ordine alle valutazioni compiute dai giudici di merito sul traffico di cella delle utenze cellulari, sulla identificazione degli utilizzatori delle utenze (richiamavano in proposito le posizioni di Ch., la cui supposta utenza era intestata a tale Ga., V., As., Ha., che non era intestatario di alcuna scheda, H. e L., le cui utenze non risultavano essere presenti in via (OMISSIS)), nonchè sull'analisi delle presenze alberghiere. Veniva, poi, censurato l'uso delle dichiarazioni del maresciallo Pi.Lu., che erano inutilizzabili a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, che aveva risolto i conflitti di attribuzione.
3) In ordine alla posizione di L.R.S. veniva denunciata la violazione dell'art. 3 cod. pen., artt. 3, 41 e 43 della Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963, L. n. 804 del 1967, art. 3 e art. 125 c.p.p., comma 3, art. 191 c.p.p., art. 192 c.p.p., comma 1, artt. 546 e 605 cod. proc. pen., art. 111 Cost. per non avere la corte di merito applicato la immunità consolare al L., che era console degli Stati uniti d'America in Milano, oltre che responsabile della CIA. Il ricorrente, dopo avere richiamato la normativa in materia di immunità diplomatica e consolare ed averne indicato le differenze ed avere ricordato che tre imputati americani avevano goduto della immunità diplomatica, mentre i due agenti consolari erano stati condannati, rilevava che avrebbe dovuto godere perlomeno della immunità funzionale. Sarebbe stato, infatti, ragionevole ritenere che il L. avesse avuto un ruolo in una missione speciale diplomatica inviata dagli Stati Uniti con il placet dell'Italia.
Il ricorrente, poi, analizzava, in particolare, gli artt. 41 e 43 della citata convenzione di Vienna e rilevava che doveva ritenersi esente dalla giurisdizione italiana per avere agito nell'esercizio delle funzioni consolari. Naturalmente anche il domicilio del L. in (OMISSIS) avrebbe dovuto godere della immunità, cosicchè gli esiti della perquisizione erano inutilizzabili ai sensi dell'art. 191 cod. proc. pen. e art. 3 della Convenzione di Vienna.
4) La violazione dell'art. 51 cod. pen. ed il vizio di motivazione sul punto.
I ricorrenti ricordavano la situazione esistente all'indomani dell'abbattimento delle torri gemelle in New York e gli atti assunti dal Presidente e dal Congresso americani, oltre che dalla NATO, per affrontare il terrorismo di matrice islamica. Nei provvedimenti eccezionali rientravano anche le extraordinary renditions. In tale contesto gli agenti della CIA si limitarono ad eseguire un ordine che non appariva manifestamente criminoso, tanto da giustificare una disobbedienza.
5) La violazione degli artt. 62 bis, 132 e 133 cod. pen. ed il vizio di motivazione sul punto per non avere la corte di merito considerato il contesto storico e la convinzione dei ricorrenti di dovere adempiere ad un ordine.
10. L'impugnazione di F.V. e ha.ja.th..
10.1. F.V. e ha.ja.th., tramite il loro difensore proponevano ricorso per cassazione e deducevano:
1) la violazione della legge processuale sulla pronuncia di latitanza con conseguente omessa e/o irregolare notifica dell'avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen. e, quindi, nullità della dichiarazione di contumacia e della richiesta di rinvio a giudizio; si tratta di un motivo di impugnazione analogo a quello proposto da Ro.Jo.
- motivo n. 1 del paragrafo 7 - e da c.e. ed altri - motivo n. 1 del paragrafo 8 -.
I ricorrenti riproponevano alcuni argomenti simili ai precedenti ricorsi, sottolineando la differenza tra i concetti di contumacia, irreperibilità e latitanza ricordando, quanto a quest'ultimo istituto, il requisito della volontaria sottrazione alla misura cautelare. Trattandosi di due imputati residenti all'estero, che soltanto temporaneamente avevano soggiornato in Italia, i ricorrenti illustravano la problematica interpretativa relativa ai residenti all'estero, per i quali l'allontanamento dal nostro Paese aveva una spiegazione alternativa alla fuga perchè si trattava di un ritorno a casa propria. In siffatte ipotesi, non essendo operative le disposizioni per la notifica all'estero di atti, appariva necessario attivare la procedura di estradizione, che, invece, nel caso in discussione non era stata attivata dal Ministro di Giustizia, sebbene richiesta e sollecitata dall'Autorità giudiziaria milanese. In mancanza di attivazione di tale procedura, infatti, non si sarebbe potuto parlare di volontaria sottrazione alla esecuzione di una misura custodiale.
Dopo avere ricordato la rilevanza della questione nel presente processo ed avere richiamato giurisprudenza delle Corti Europee sul punto, i ricorrenti sollevavano la questione di legittimità costituzionale dell'art. 165 cod. proc. pen., secondo il quale le notifiche all'imputato latitante debbono essere eseguite mediante consegna di copia dell'atto al difensore. In effetti la posizione dell'irreperibile sarebbe maggiormente garantita rispetto a quella del latitante e la disposizione dell'art. 165 cod. proc. pen. in relazione a quelle degli artt. 295 e 296 c.p.p. si porrebbe in contrasto con l'art. 2 Cost. (inviolabilità del diritto di difesa), art. 3 Cost. (disparità di trattamento tra irreperibili e latitanti), art. 10 Cost., comma 1 (conformità delle disposizioni del nostro ordinamento alle regole internazionali), art. 24 Cost., commi 2 e 3 (inviolabilità del diritto di difesa), art. 97 Cost.
(buon andamento della amministrazione) e art. 111 Cost. (principio del contraddittorio).
2) la violazione di legge processuale per la mancata traduzione, al momento della sua emissione, nella lingua madre degli imputati della ordinanza di custodia cautelare, tradotta soltanto a fini estradizionali, e conseguente violazione del diritto di difesa.
3) la illogicità della motivazione in punto qualificazione giuridica del fatto, rispettivamente secondo la legge italiana ed americana;
disparità di trattamento tra posizioni soggettive; infrazione del divieto di discriminazione basato sulla nazionalità dell'imputato;
uso contra legem del segreto di stato; violazione di legge in relazione agli artt. 51 e/o 62 bis cod. pen.. I ricorrenti, dopo avere ricordato la legislazione americana in materia di lotta al terrorismo e la conseguente diversa qualificazione della operazione alla stregua delle due legislazioni, rilevavano, in particolare, che i giudici di merito avevano ritenuto che non vi fossero elementi per escludere un coinvolgimento dei servizi segreti italiani e che l'apposizione del segreto di stato non aveva consentito l'approfondimento di tale aspetto. Orbene tale aspetto concernente i rapporti tra i due servizi sarebbe stato di giovamento alla posizione difensiva perchè gli imputati, che avevano eseguito un ordine impartito dai loro superiori gerarchici, avevano ritenuto tale ordine lecito e tollerato dalla lex loci, anche perchè alla esecuzione dello stesso avevano collaborato appartenenti ai servizi italiani. In siffatta situazione si sarebbe dovuta ritenere la esistenza della esimente dell'adempimento di un dovere, quantomeno putativo, posto che le scriminanti sono riconosciute anche in campo internazionale - artt. 31, 32 e 33 dello Statuto di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale -. In ogni caso nella situazione storica e legislativa esistente all'epoca dei fatti, la corte di merito non avrebbe potuto revocare le attenuanti generiche riconosciute dal giudice di primo grado.
10.2. Con motivi aggiunti i ricorrenti, dopo avere illustrato il metodo investigativo, fondato essenzialmente sulla analisi del traffico telefonico, ed avere indicato tutte le iniziative della difesa tese ad ottenere dei chiarimenti sul punto e, più in particolare, sulla ampiezza delle celle, mai accertata, ed invece di importanza decisiva per la individuazione dei telefoni cellulari e dei loro utenti, come chiarito dal difensore con l'ausilio delle considerazioni di un consulente, deducevano la mancata acquisizione di una prova decisiva - ampiezza delle celle - e vizio di motivazione sul punto per avere la corte territoriale determinato tale ampiezza in modo apodittico in quattro o cinquecento metri.
11. Il ricorso di D.S.S..
11.1. D.S.S., tramite il proprio difensore di fiducia, proponeva ricorso per cassazione e deduceva:
1) la inutilizzabilità delle dichiarazioni di D'.St.
in relazione alla posizione della ricorrente perchè coperte da segreto di Stato, la violazione degli artt. 191 e 202 cod. proc. pen., ed il vizio di motivazione, sotto i profili della contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata sul punto. La ricorrente rilevava che contraddittoriamente la sentenza impugnata aveva sostenuto di aderire alla valutazione del segreto compiuta dal giudice di primo grado, che aveva ritenuto inutilizzabili anche le dichiarazioni del D'., ed aveva poi considerato utilizzabili tali dichiarazioni, ritenute, peraltro, decisive, senza adeguatamente motivare, o meglio motivando sul fatto che le dichiarazioni del D'. non riguarderebbero rapporti tra i servizi italiano e statunitense, ma rapporti personali fra singoli interessati o rapporti interni alla CIA, in tal modo travisando anche il contenuto delle dichiarazioni del D'..
2) La violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2, ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità della ricorrente.
Quest'ultima, dopo avere richiamato lo schema della motivazione della corte di merito ed indicato gli elementi indiziari posti a fondamento della affermazione di responsabilità, denunciava che per quanto riguarda le due telefonate, di brevissima durata, tra l'utenza in uso a H.R., agente che avrebbe partecipato materialmente al rapimento, e D.S.S. si tratterebbe di indizi privi di precisione e gravità perchè dette telefonate potrebbero essere spiegate in modo alternativo; rispetto a tale indizio la corte avrebbe esibito una motivazione perplessa; sempre in ordine alla predette telefonate la ricorrente denunciava la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui aveva affermato il valore delle stesse per la loro obiettività, apparendo superfluo individuare la causale delle stesse ed il rapporto con le attività preparatorie del sequestro; infine nessun rilievo avrebbero potuto avere i due contatti telefonici tra la D.S. e M. B., dipendente della ambasciata americana, accusata di avere partecipato al sequestro di A.O. e prosciolta per immunità diplomatica, avvenute nel mese di giugno del 2002, ovvero circa otto mesi prima della consumazione del delitto.
Il 24 dicembre 2004 Cs.Su. aveva inviato una e-mail a L.R. con la quale comunicava, tra l'altro, che To. le aveva detto di avere ricevuto da S. un messaggio con l'invito a non recarsi in Italia. Secondo la ricorrente illogicamente la S. dell'e-mail era stata identificata nella D.S.S. ed altrettanto illogicamente si era ritenuto rilevante, sotto il profilo della consapevolezza del sequestro da parte della ricorrente, un tale avvertimento avvenuto dopo circa due anni dal fatto quando oramai era noto a tutti che i magistrati milanesi stessero indagando sulla questione. Del pari illogico era il rilievo conferito ad articoli giornalistici, che riferivano che la ricorrente aveva citato in giudizio il governo americano per vedersi garantita l'immunità diplomatica e l'assistenza legale. La ricorrente deduceva, infine, la manifesta illogicità, oltre al travisamento della prova, delle dichiarazioni di D'. e Pi. - peraltro in contraddizione tra loro su alcuni punti -, che avevano riferito ciò che aveva loro detto L., della cui attendibilità era lecito dubitare, principalmente in ordine al fatto che sarebbe stata inviata a Milano perchè il L. era contrario a certe pratiche della CIA;
siffatta considerazione, però, non poteva avere nessun rilievo in ordine al rapimento di A.O. perchè il trasferimento della ricorrente era avvenuto nel mese di giugno del 2001, ben prima dell'attacco alle torri gemelle e alla introduzione delle pratiche di extraordinary renditions.
3) la violazione del regime delle immunità consolare dalla giurisdizione, ed in particolare la violazione dell'art. 43 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari recepita dall'Italia con L. n. 304 del 1967; la violazione dell'art. 10 Cost. in ordine al mancato riconoscimento dell'immunità sancita dai diritto internazionale consuetudinario ed il vizio di motivazione sul punto;
si tratta di motivo analogo a quello prospettato da L.R., e di cui si è già detto, anche se sostenuto con argomenti in parte diversi.
La ricorrente ha, in particolare, sostenuto che la sua condotta rientrava nelle funzioni consolari attribuitele - che, peraltro, non sarebbero sindacabili dallo Stato di residenza -, nel senso che aveva agito a tutela degli interessi dello Stato rappresentato, e che, in ogni caso, avrebbe diritto alla immunità funzionale, in attuazione della norma consuetudinaria ispirata al principio del par in parem non habet iurisdictionem, avendo agito iure imperii quale agente della CIA e, quindi, quale individuo-organo di altro Stato sovrano, per compiere un atto di extraordinary rendition ritenuta lecita dall'ordinamento della Stato di invio. La immunità funzionale troverebbe l'unico limite nel divieto di commettere crimini internazionali, tra i quali, tenuto conto anche della definizione fornita dall'art. 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, non rientrava la pratica delle renditions, che non era stata definita come crimine internazionale da nessun trattato.
4) La violazione degli artt. 62 bis e 133 c.p., art. 605 c.p., comma 2 ed il vizio di motivazione sul punto per la ritenuta sussistenza dell'aggravante contestata, per la revoca delle attenuanti generiche e per la eccessività della pena inflitta. In particolare in ordine alla ritenuta aggravante la ricorrente rilevava che non vi era alcun elemento che consentisse di ritenere la sua consapevolezza della partecipazione del maresciallo Pi. alla operazione in danno di A.O..
12. I motivi di ricorso di P.N..
12.1. P.N., tramite i propri difensori di fiducia, proponeva ricorso per cassazione e deduceva i seguenti motivi di impugnazione:
1) la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta ammissibilità dell'atto di costituzione di parte civile di A.O.. Si tratta di motivo analogo a quello di cui al numero 8 del paragrafo 8, che tratta del ricorso di c.e. ed altri; si rinvia a quanto già esposto.
2) La erronea applicazione della legge penale laddove la corte non aveva annullato le ordinanze con cui il tribunale aveva disposto la sospensione della prescrizione ex art. 159 cod. pen., comma 1, n. 3 perchè la sospensione del termine predetto è ipotizzabile soltanto quando la richiesta di rinvio sia connessa ad esigenze personali del difensore o dell'imputato e non quando la richiesta sia fondata su ragioni oggettive - nel caso di specie attesa della definizione dei conflitti di attribuzione - rilevabili anche di ufficio.
3) La violazione di norme processuali perchè la corte non aveva annullato l'ordinanza del 16 aprile 2008 con la quale il tribunale aveva acquisito al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni del generale pi. ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen.. In effetti il pi., affetto da tumore, aveva ottenuto il 5 luglio 2006 gli arresti domiciliari proprio in considerazione del suo grave stato di salute, che era, pertanto, noto al Pubblico Ministero, ed era deceduto in data 11 settembre dello stesso anno. La sua morte era, pertanto, evento prevedibile ed il Pubblico Ministero avrebbe dovuto richiedere, cosa che non aveva, invece, fatto, un incidente probatorio per sentire il pi. in contraddittorio delle parti, emergendo dalle sue dichiarazioni profili di responsabilità a carico del P..
4) La violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. a) ed e) per esercizio da parte del giudice di potestà riservate dalla legge al Presidente del Consiglio dei Ministri e per omessa motivazione ed illogicità della stessa laddove l'impugnata sentenza non aveva annullato l'ordinanza del 20 maggio 2009 con cui il tribunale aveva revocato l'ammissione dei testimoni indicati dalla difesa del generale P.. Quest'ultimo aveva depositato la lista testi per escuterli sulla esistenza di documenti afferenti l'ipotesi accusatoria e sul fatto che gli stessi erano coperti da segreto di Stato. Erroneamente il giudice aveva ritenuto di revocare l'ammissione dei testimoni indicati, dimenticando che il segreto deve essere opposto ed eventualmente confermato dal Presidente del Consiglio e non può essere presunto dal giudice.
5) La identica violazione di cui al punto che precede con riferimento alla ordinanza in data 8 luglio 2009 con la quale il tribunale aveva rigettato la richiesta di ordinare agli uffici governativi competenti l'esibizione di tutta la documentazione concernente i fatti oggetto del presente procedimento penale. La difesa del P., al fine di provare di essere impossibilitata a difendersi, aveva richiesto l'attivazione della procedura di cui all'art. 256 cod. proc. pen. al fine di disporre il sequestro sulla documentazione governativa relativa alla vicenda di A.O., cosa che il tribunale non aveva fatto per essere i predetti documenti coperti da segreto di Stato, onde accertare la esistenza degli stessi ed il fatto che erano coperti da segreto. Così facendo il giudice si era appropriato di poteri che non gli spettavano.
6) le identiche violazioni di cui al punto cinque in relazione alla ordinanza del 20 maggio 2009, con la quale il tribunale aveva accolto la rinuncia del Pubblico Ministero alla audizione di propri testimoni. Il motivo era fondato sulle stesse ragioni indicate nei tre motivi precedenti.
7) Il vizio di motivazione in ordine alla mancata assoluzione del ricorrente per non aver commesso il fatto perchè i giudici di merito, pur riconoscendo che tutti gli elementi di accusa a carico del P. erano inutilizzabili perchè coperti da segreto di Stato, peraltro in molti casi ritenuto dal giudice e non opposto dalla parte e confermato dalla Presidenza del consiglio dei Ministri, aveva poi concluso per un proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 202 cod. proc. pen. e non ai sensi dell'art. 530 c.p.p..
8) Il vizio di motivazione - mancanza e contraddittorietà - per avere la corte di merito ritenuto che, nonostante la mancanza di prove di colpevolezza, il ricorrente non potesse essere prosciolto con la formula per non aver commesso il fatto.
12.2. Con memoria difensiva di replica depositata il 31 maggio 2012 P.N. deduceva la inammissibilità dei ricorsi del Procuratore generale di Milano e delle parti civili perchè tendenti a sollecitare un non consentito sindacato di fatto e, con specifico riferimento al ricorso delle parti civili, anche perchè generico.
Infatti, nel ritenere che il segreto non poteva riguardare comportamenti assunti da singoli appartenenti al SISMI al di fuori dei loro compiti istituzionali, il Procuratore generale aveva sollecitato una diversa lettura degli atti di conferma del segreto di Stato.
Quanto al ricorso delle parti civili, oltre alla richiesta di una rivalutazione di merito circa la natura delle informazioni riportate dalla corte di appello alla categoria degli interna corporis, il ricorrente rilevava che, in effetti, erano stati riproposti gli argomenti già sottoposti al vaglio dei giudici di secondo grado, senza tenere conto degli argomenti da tale giudice utilizzati per sostenere una tesi diversa.
Tanto premesso il ricorrente prendeva in esame tutti gli atti di conferma del segreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri e la sentenza della Corte Costituzionale n. 106 del 2009 e denunciava la infondatezza della tesi del Procuratore Generale, secondo il quale la conferma del segreto avrebbe riguardato soltanto i rapporti istituzionali intercorrenti tra servizi italiani e stranieri e non anche le condotte poste in essere dagli appartenenti al servizio di informazioni al di fuori dei compiti funzionali.
13. Il ricorso di D.T.R..
13.1. D.T.R., agente del SISMI, proponeva ricorso per cassazione e deduceva la violazione delle regole sulla motivazione sia in ordine al requisito della essenzialità contenuto nell'art. 202 c.p.p., comma 3, sia in relazione alla applicazione dell'art. 202 c.p.p., comma 3, artt. 529 e 530 cod. proc. pen..
Il ricorrente, dopo avere ricordato che per la declaratoria di non doversi procedere per segreto di Stato è necessario, ai sensi dell'art. 202 c.p.p., comma 3, che per la definizione del processo risulti "essenziale" la conoscenza di quanto coperto dal segreto di Stato, sosteneva che sarebbe stato necessario porre a confronto il materiale istruttorio segretato con quello non secretato. La ritenuta non essenzialità del secretato e l'assenza di altre prove a carico avrebbe dovuto comportare il proscioglimento dell'imputato con la formula per non aver commesso il fatto.
Del resto, rilevava ancora il ricorrente, quella prevista dall'art. 202 c.p.p., comma 3 è una condizione di procedibilità per cosi dire atipica e duttile; ciò significa che la apposizione del segreto non impedisce la prosecuzione del processo, dovendosi effettuare una valutazione finale deduttiva rispetto al materiale raccolto e comparativa rispetto ad altre fonti di prova.
Nel caso di specie la corte di merito non aveva seguito il metodo indicato perchè dal materiale non secretato nulla era emerso a carico del ricorrente, che andava, pertanto, assolto per non aver commesso il fatto.
14.......di D.G.L..
14.1. D.G.L. proponeva ricorso tramite il suo difensore di fiducia, e deduceva:
1) la mancanza della motivazione della sentenza impugnata. Il ricorrente spiegava che il giudice di appello aveva restituito al Pubblico Ministero il verbale di interrogatorio reso nella fase delle indagini preliminari dal D.G., ritenuto dal Pubblico Ministero di natura confessoria, perchè coperto da segreto e poi aveva prosciolto il ricorrente ai sensi dell'art. 202 c.p.p., comma 3 senza, però, chiarire quali prove secretate fossero risultate essenziali per definire il processo nel merito. Inoltre il ricorrente ricordava che con l'atto di appello aveva rappresentato l'assenza di qualsiasi elemento di prova a suo carico, fatto che, unito alla assenza di elementi secretati essenziali, avrebbe dovuto comportare il proscioglimento per non aver commesso il fatto. Anche su tali deduzioni era mancata completamente la motivazione dei giudici di appello.
2) La inosservanza di norme stabilite a pena di inutilizzabilità per la erronea acquisizione del verbale di interrogatorio dinanzi indicato, poi restituito perchè sottoposto a segreto. In effetti la corte di merito, erroneamente interpretando l'opposizione del segreto in sede di interrogatorio dibattimentale come rifiuto di sottoporsi all'esame, aveva, ai sensi dell'art. 513 cod. proc. pen., acquisito Il predetto verbale, salvo poi a restituirlo perchè coperto da segreto. Senonchè, in tal modo, l'atto era comunque rientrato nella valutazione probatoria e la valutazione come essenziale per la definizione del processo non aveva consentito il proscioglimento del ricorrente per non aver commesso il fatto.
15....... di C.G..
15.1. C.G., nei confronti del quale era stato dichiarato non doversi procedere ai sensi dell'art. 202 c.p.p., comma 3, decisione non appellata dal C., essendosi limitato l'imputato a presentare una memoria difensiva a seguito dell'appello del Pubblico Ministero, con la quale aveva chiesto ai sensi dell'art. 530 c.p.p. e art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b) di essere assolto per non aver commesso il fatto, proponeva ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado, che aveva confermato quella del tribunale, e, tramite il suo difensore di fiducia, deduceva la inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 529 e 530 c.p.p., art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b), art. 202 c.p.p., comma 3 e della L. 3 agosto 2007, n. 124, art. 41 in relazione all'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).
Dopo avere ricordato la vicenda del segreto ed avere riportato ampi stralci della decisione della Corte Costituzionale, il ricorrente si soffermava sulla sua specifica vicenda processuale, deducendo che illegittimamente la corte di merito aveva acquisito ai sensi dell'art. 513 cod. proc. pen. il verbale delle dichiarazioni, asseritamene confessorie, rese dal C. in sede di indagini preliminari, verbale poi restituito al Pubblico Ministero perchè coperto da segreto e perchè non rilevante ai fini della decisione.
Cosicchè proprio in base alla valutazione della irrilevanza del verbale acquisito e della assenza di altre prove a carico del ricorrente, più volte ribadita dal pubblico ministero e dal giudice, il C. avrebbe dovuto essere prosciolto per non aver commesso il fatto.
Del resto anche l'esame delle dichiarazioni di D'. e Pi., certamente inutilizzabili, ma utilizzate dalla corte di merito per il coimputato P., ma non per il C., avrebbe fatto emergere l'assoluta estraneità del ricorrente ai fatti contestatigli.
15.2. Con memoria difensiva depositata il 24 maggio 2012 C. G. contestava le tesi del ricorrente procuratore generale in tema di segreto di Stato ed a conforto degli argomenti sostenuti nel suo ricorso richiamava le sentenze Sez. 6, n. 16362/12, del 20 settembre 2011 e Corte Costituzionale n. 40 del 23 febbraio 2012.
16........di M.M..
16.1. M.M., che non aveva proposto appello avverso la sentenza di primo grado, premesso che aveva interesse ad impugnare anche ai fini e per gli effetti previsti dall'art. 314 c.p.p., comma 1, essendo stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, poi sostituita con quella degli arresti domiciliari, proponeva, tramite i propri difensori di fiducia, ricorso per cassazione avverso il proscioglimento per esistenza del segreto di Stato e deduceva i seguenti motivi di impugnazione:
1) la violazione dell'art. 606 cod. proc. pen. in relazione all'art. 530 c.p.p., art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b) per omissione e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, anche con riferimento ad atti del processo, per non avere la corte di merito prosciolto il M. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto ai sensi dell'art. 530 c.p.p. e art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b).
Il ricorrente sottolineava che tra gli atti utilizzabili non coperti da segreto vi era la prova positiva della sua innocenza, cosicchè in ossequio al principio del favor innocentiae - art. 27 Cost. e art. 6 CEDU - il proscioglimento con formula piena avrebbe dovuto prevalere sul venir meno della procedibilità ex art. 202 cod. proc. pen., posto che anche la sentenza di improcedibilità può avere effetti pregiudizievoli, come si era ricordato in premessa; in conclusione il giudice, pur in presenza di atti coperti da segreto, non si sarebbe potuto sottrarre ad una valutazione di merito delle prove utilizzabili.
2) La omessa motivazione in ordine alla sussistenza di elementi probatori utilizzabili dai quali poter desumere l'estraneità del M. al sequestro in contestazione; il ricorrente faceva riferimento alle risposte, definite generiche dalla corte di merito, del generale pi. al M. ed alle dichiarazioni, non correttamente interpretate dai giudici del merito, di Pi., D'. e pi..
16.2. In data 15 maggio 2012 i difensori del M. depositavano note di udienza con le quali denunciavano la infondatezza del ricorso del Procuratore Generale e richiamavano, a sostegno della loro tesi, le decisioni n. 40 del 2012 della Corte Costituzionale e n. 16362 del 3 maggio 2012 della 6 sezione penale della Corte di Cassazione.
Il ricorrente denunciava la tesi del Procuratore generale, secondo il quale il segreto potrebbe riferirsi soltanto ad attività istituzionali e non anche a condotte ritenute illecite dall'accusa (vedi Sez. 6, 16362/2012 citata).
Il M., inoltre, censurava il richiamo del Procuratore Generale alle cause di giustificazione previste dalla L. 124 del 2007, art. 17, sia perchè la norma era entrata in vigore in epoca successiva al fatto, sia perchè tale norma non conteneva limiti alla potestà di segretazione rinvenibili soltanto nell'art. 39, comma 11 della legge citata, tra i quali non rientrava il sequestro di persona, che non poteva essere ritenuto fatto eversivo dell'ordine costituzionale.
Infine il ricorrente ricordava che la Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 40 del 23 febbraio 2012 aveva ribadito che tutte le notizie relative ai rapporti tra servizi italiani e stranieri e agli interna corporis, ivi comprese le modalità organizzative ed operative e le procedure interne del SISMI, erano coperte dal segreto di Stato.
17. Il ricorso di S.L..
17.1. S.L., condannato per il delitto di favoreggiamento personale, proponeva ricorso per cassazione e deduceva i seguenti motivi di impugnazione:
1) la violazione della L. n. 124 del 2007, art. 41 in materia di segreto di Stato, così come interpretato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 106 del 2009, per la mancata attivazione della procedura di interpello del Presidente del Consiglio dei Ministri prevista dal richiamato L. n. 124 del 2007, art. 41 in esito alla opposizione del segreto di Stato da parte di S.L.; la violazione dei diritti della difesa, l'esercizio di poteri propri di organi amministrativi ed il vizio di motivazione.
Ricordati i principi stabiliti dalla Corte Costituzionale in materia di segreto di Stato e rilevato che in conseguenza della applicazione degli stessi erano stati prosciolti gli agenti del Sismi, lamentava che, invece, per il S. era intervenuta condanna.
Seno era stato condannato perchè aveva consentito al generale pi. di usare il suo telefono cellulare per comunicare con M.. Orbene S. per difendersi avrebbe dovuto far rilevare che il cellulare in questione non era suo e che non poteva impedire l'uso dello stesso da parte del pi..
Per fare ciò avrebbe dovuto riferire su fatti relativi agli interna corporis del servizio, ed in particolare agli assetti organizzativi e operativi, cosa che non gli era consentita perchè aveva l'obbligo di mantenere il segreto su tali aspetti. Cosicchè la corte di merito, se avesse ritenuto che tali atti rientravano nell'ambito della già espressa definizione del segreto da parte dell'Autorità politica, ne avrebbe dovuto prendere atto e decidere di conseguenza, tenendo presente che la essenzialità ai fini della decisione di quanto coperto da segreto deve essere valutata non solo nella prospettiva dell'accusa, ma anche in quella della difesa; in caso contrario a seguito della opposizione del S. la corte di merito avrebbe dovuto investire la Presidenza del consiglio per le deliberazioni di competenza.
2) la violazione dell'art. 202 cod. proc. pen. e della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41 ed il vizio di motivazione in ordine alla utilizzazione da parte dei giudici di merito di fonti di prova inutilizzabili per segreto di Stato.
Il ricorrente rilevava che doveva ritenersi errata l'affermazione della corte di merito, secondo la quale per le intercettazioni telefoniche la copertura del segreto riguarderebbe soltanto le relazioni tra servizi italiani e stranieri e non anche gli interna corporis.
Del pari errata sarebbe l'affermazione della corte di merito, secondo la quale la disciplina del segreto non riguarderebbe attività non istituzionali del SISMI, ovvero vere e proprie attività di depistaggio.
3) La violazione di legge ed il vizio di motivazione - omissione - in ordine all'appello proposto avverso l'ordinanza in data 20 maggio 2009, con la quale il tribunale aveva revocato i testi ammessi a discarico Io.Ma. e pi.lo., privando in tal modo il S. di ogni possibilità di difesa.
4) La violazione dell'art. 191 cod. proc. pen. con riferimento agli artt. 266 e 271 c.p.p. per essere le intercettazioni state disposte ed utilizzate nei confronti del S. per il reato di cui all'art. 378 cod. pen. non compreso tra quelli di cui all'art. 266 cod. proc. pen..
Il ricorrente rilevava che la corte di merito, travisando il decreto di autorizzazione alla intercettazione della utenza in uso anche a S., aveva ritenuto che la intercettazione fosse stata disposta in relazione al reato di cui all'art. 605 cod. pen., mentre, invece, risultava con chiarezza che essa fosse stata disposta per verificare i comportamenti di alcuni funzionari del SISMI, che seguivano le indagini del Pubblico Ministero per individuarne la direzione e gli sviluppi, Censurava, poi, il ricorrente anche il rinvio operato dalla corte di merito alla posizione di Po.Pi., che era, invece, molto diversa; ciò aveva determinato una omissione di motivazione sul punto.
Altro profilo di inutilizzabilità era ravvisato nel fatto che le intercettazioni in discussione non erano state disposte ed utilizzate per la prova del reato di cui all'art. 605 cod. pen., nel quale non era mai stato coinvolto il S., ma esclusivamente per provare un reato, ritenuto connesso, di favoreggiamento personale, cosa non consentita dalla legge, come sostenuto da autorevoli precedenti (Sez. 4, n. 4942/2004 e Sez. 6, n. 12562/2010.
5) La erronea applicazione dell'art. 378 cod. pen. e la violazione dell'art. 546 c.p.p., lett. e), art. 533 c.p.p. e art. 125 c.p.p., comma 3 ed il vizio di motivazione sul punto perchè l'unico elemento a carico del ricorrente era costituito dal fatto oggettivo della consegna del telefono al pi., ma non vi era alcun elemento che consentiva di ritenere che S. avesse partecipato alle conversazioni tra pi. e M., nè che fosse consapevole di aiutare con tale condotta i due ad eludere le investigazioni.
6) La erronea applicazione dell'art. 378 cod. pen. in relazione alla dedotta mancanza del reato presupposto ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) non essendo giudizialmente accertabile il concorso di agenti del SISMI nel sequestro di A.O..
7) La violazione degli artt. 511 e 526 cod. proc. pen. in relazione alla mancata lettura-indicazione degli atti utilizzabili, errore riconosciuto dai giudici di appello, che, però, avevano ritenuto detta violazione processuale priva di sanzione, interpretazione che comporterebbe la incostituzionalità delle norme predette per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., tenuto conto dell'evidente lesione del diritto di difesa conseguente alla mancata lettura o alla mancata indicazione degli atti utilizzabili per la decisione.
8) La violazione degli artt. 133 e 62 bis cod. pen. per eccessività della pena inflitta e mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ed il vizio di motivazione sul punto, specialmente con riferimento alla sottovalutazione dello stato di servizio del S. ed alla negativa valutazione - scelta difensiva - dell'opposizione del segreto di Stato, laddove il ricorrente era, ed è, tenuto a rispettare il divieto di riferire fatti coperti dal segreto imposto dalla legge e sanzionato penalmente.
9) La violazione degli artt. 28, 29, 31 e 133 cod. pen. con riferimento alla conferma della durata della pena accessoria, nonostante la riduzione di quella principale al di sotto dei tre anni.
17.2. Con atto depositato il 15 maggio 2012, i difensori di S. L. hanno presentato motivi nuovi.
Il ricorrente, dopo avere riassunto le censure contenute nel ricorso, richiamava, a sostegno delle tesi sostenute con i primi due motivi del ricorso principale, le sentenze della Corte Costituzionale del 23 febbraio 2012 n. 40 e della Corte Suprema di Cassazione, 6 sezione penale, del 3 maggio 2012 pronunciate dopo la proposizione del ricorso e di cui si è già dato atto in un precedente paragrafo nel riportare i motivi di altro ricorrente.
Il S. poneva in evidenza che, oltre a confermare gli indirizzi della sentenza n. 106 del 2009 della Corte Costituzionale, la sentenza n. 40 del 2012 aveva chiarito che l'obbligo di serbare il segreto sugli interna corporis e, quindi, sulle modalità operative ed organizzative dei servizi segreti, ricadeva anche sulla persona indagata e/o imputata, con conseguente impossibilità per la stessa di difendersi provando, e con conseguente necessità di una pronuncia di improcedibilità ex art. 202 cod. proc. pen. da parte del giudice.
Quindi il S. avrebbe dovuto riferire, per difendersi, in ordine alla sua collocazione nel SISMI ed al fatto che non poteva rifiutare l'uso del telefono mobile al generale pi., fatti che attenevano ai profili organizzativi del servizio e che non potevano essere rivelati; il giudice avrebbe dovuto vagliare la essenzialità di tali elementi anche nella prospettiva difensiva ai fini della decisione, cosa che non aveva fatto.
Infine il ricorrente ricordava che la citata sentenza della cassazione aveva ribadito essere infondata la tesi del Procuratore Generale che le attività illecite ipotizzate dall'accusa non sarebbero suscettibili di essere coperte dal segreto di Stato.
18. Il ricorso di Po.Pi..
18.1. Po.Pi., tramite il suo difensore di fiducia depositava due ricorsi per cassazione e deduceva i seguenti motivi di impugnazione:
1) la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta ammissibilità degli atti di costituzione delle parti civili; si tratta di un motivo analogo a quello proposto dai ricorsi di c.e. ed altri e P.N., al quali si rinvia.
Con i motivi aggiunti il ricorrente replicava al ricorso delle parti civili avverso la revoca della condanna al risarcimento dei danni del Po. ricordando che il giudice di secondo grado aveva escluso in punto di fatto che la condotta del Po. avesse prodotto danni alle parti civili. Chiedeva il rigetto del ricorso delle parti civili.
2) La violazione della legge processuale penale laddove la corte di appello non aveva annullato le ordinanze con cui il tribunale aveva disposto la sospensione della prescrizione ex art. 159 c.p., comma 1, n. 3; si tratta di motivo analogo a quello proposto con il secondo motivo di ricorso da P.N., al quale si rinvia.
3) La violazione dell'art. 606 cod. proc. pen., lett. a) ed e) per contraddittorietà della motivazione ed esercizio da parte del giudice di poteri attribuiti al Presidente del Consiglio dei Ministri laddove non era stata annullata l'ordinanza in data 1 luglio 2009, con la quale il tribunale aveva rigettato la richiesta del Pubblico Ministero di attivare la procedura L. n. 124 del 2007, ex art. 41 e laddove la corte non aveva accolto analoga richiesta della difesa; in tal modo i giudici si sarebbero arrogati prerogative della Presidenza del Consiglio dei Ministri; il motivo è sostanzialmente analogo al primo motivo del ricorso proposto dal S..
Il Po. ricordava di essere obbligato dalla legge ad opporre il segreto, obbligo sanzionato penalmente e, quindi, impossibilitato a difendersi. Con il secondo ricorso il Po. insisteva per l'accoglimento di tale motivo aggiungendo ulteriori argomenti.
Con i motivi aggiunti depositati il 16 maggio 2012 il ricorrente, a sostegno delle tesi sostenute, richiamava i principi esposti nella sentenza della sezione 6 del 20 settembre 2011, n. 16362 del 2012 relativa al cd. (OMISSIS). In particolare il ricorrente denunciava la mancata attivazione della procedura per la conferma della opposizione del segreto, la mancata valutazione da parte dei giudici di merito della pertinenza e specificità del segreto opposto e la essenzialità delle circostanze su cui era stato opposto il segreto e poneva nuovamente in evidenza le contraddizioni motivazionali di entrambi i giudici del merito.
4) La violazione di legge ed il vizio di motivazione per avere ritenuto la corte utilizzabili a carico del Po. elementi di prova inutilizzabili perchè coperti da segreto di Stato. Il ricorrente, dopo avere ricordato i principi enunciati in materia di segreto dalla sentenza n. 106 del 2009 della Corte Costituzionale ed avere posto in evidenza la illogicità della motivazione della sentenza impugnata, che aveva negato potesse ritenersi il segreto in relazione al delitto di favoreggiamento, rilevava come non si sarebbero potute utilizzare le intercettazioni delle conversazioni tra il Po. ed i suoi informatori, come B., e giornalisti perchè si sarebbe trattato di conversazioni aventi ad oggetto interna corporis del servizio; che il Dott. Fa., detto (OMISSIS), era oggettivamente un incaricato di un pubblico servizio ed avrebbe potuto legittimamente opporre il segreto e concludeva che, eliminate le fonti di prova indicate, il ricorrente avrebbe dovuto essere assolto.
5) La violazione di legge per essere state utilizzate dai giudici di merito intercettazioni telefoniche autorizzate in contrasto con l'art. 266 cod. proc. pen.; il motivo è sostanzialmente analogo al quarto motivo del ricorso di S.L., al quale si rinvia.
Il Po. ha, conclusivamente, rilevato che, eliminate le intercettazioni, che costituivano riscontro oggettivo alle dichiarazioni del Fa. sentito ai sensi dell'art. 197 bis cod. proc. pen., nessun elemento restava a suo carico, essendo l'esame del Fa. privo di attendibilità estrinseca.
6) La violazione di legge per avere ritenuto la corte astrattamente pericolosa la condotta attribuita a titolo di favoreggiamento al Po., mentre, invece, era impensabile che un Pubblico Ministero potesse fornire notizie riservate ad un giornalista, il quale, d'altra parte, legittimamente chiedeva notizie al Pubblico Ministero su processi in corso. Inoltre era emerso che il Pubblico Ministero interessato era al corrente delle intenzioni del Fa. e, quindi, non vi era nessun pericolo per le indagini.
7) La omessa motivazione laddove la corte aveva ritenuto il reato di favoreggiamento a carico del ricorrente nell'episodio del colloquio tra i Pubblici Ministeri ed il Fa.. Quest'ultimo autonomamente richiese al Pubblico Ministero un appuntamento ed aveva già pensato alle domande da rivolgere; non vi erano elementi per ritenere un concorso del Po. nel delitto di favoreggiamento commesso dal Fa.. Inoltre le notizie di cui venne a conoscenza attraverso i Pubblici Ministeri - coinvolgimento nel sequestro della DIGOS e del sostituto procuratore D'.St. - erano già state oggetto di numerosi articoli di stampa ben noti anche agli investigatori.
8) La omessa motivazione in ordine all'episodio della comunicazione al Po. di notizie sull'andamento delle indagini e sugli spostamenti del Pubblico Ministero, notizie acquisite lecitamente.
9) La violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. laddove la corte aveva condannato il Po. anche in relazione al ricevimento di un rapporto dei ROS. Il colonnello L. aveva consegnato al giornalista A. una informativa del ROS non più coperta da segreto istruttorio ed a tale episodio aveva fatto riferimento il Pubblico Ministero nella requisitoria; il fatto non era mai stato contestato al Po., ma la corte di merito, in motivazione, aveva sostenuto che anche per questo andava pronunciata condanna; la corte, però, non ne aveva mai illustrato le ragioni.
10) La omessa motivazione in ordine alla condanna del ricorrente a titolo di favoreggiamento anche per il suggerimento ad alcuni giornalisti di articoli sul coinvolgimento nel sequestro della DIGOS di Milano e del Dott. D'..
11) La violazione di legge per avere ritenuto provato l'elemento costitutivo del favoreggiamento rappresentato dalla presenza di taluno da aiutare ad eludere le indagini perchè, essendo calato il sipario nero sulle fonti di prova gli agenti del SISMI, a vantaggio dei quali il Po. avrebbe operato, erano al di fuori delle indagini.
12) La omessa motivazione sul rilievo difensivo che era impossibile accertare l'elemento negativo dell'art. 378 cod. pen., ovvero la mancata partecipazione del P. al reato presupposto di sequestro di persona, perchè la improcedibilità nei confronti degli agenti SISMI a cagione della opposizione e conferma del segreto di Stato aveva reso impossibile accertare se il Po. avesse o meno partecipato al sequestro di persona in danno di A.O..
13) La mancanza della coscienza e volontà di aiutare taluno ad eludere le indagini perchè Po. non aveva mai agito con il dolo di favoreggiamento, essendo mosso soltanto da un interesse informativo; del resto chiedeva notizie anche di altri fatti e processi di interesse per il servizio.
14) La omessa motivazione nella parte in cui si era ritenuta la consapevolezza del Po. della realizzazione del reato presupposto posto che, per la opposizione/conferma del segreto non solo non si erano potute accertare eventuali responsabilità di agenti del SISMI per il grave episodio, ma non si era nemmeno potuto accertare se il SISMI fosse o meno a conoscenza del fatto.
15) La violazione di legge per non avere la corte di merito prosciolto il ricorrente per esistenza del segreto di Stato. In effetti il Po. aveva opposto il segreto di Stato, perchè così impostogli dalla legge, e, quindi, non si era potuto difendere, come del resto aveva riconosciuto anche il Pubblico Ministero, che aveva rilevato anche una possibile illegittimità costituzionale della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41. Inoltre a seguito dell'opposizione del segreto il tribunale prima e la corte di merito, poi, non avevano ritenuto di avviare la procedura per la conferma. Il segreto era stato opposto su circostanze essenziali, specificamente indicate nel corso dell'interrogatorio, ai fini della decisione, perchè il vincolo aveva impedito al Po. di difendersi sia sulla materialità delle condotte sia sul coefficiente psicologico che le aveva caratterizzate. Sul punto il ricorrente censurava anche le contraddizioni dei giudici di merito. Il ricorrente insisteva per l'accoglimento del motivo anche con un secondo ricorso.
16) La violazione dell'art. 133 cod. pen. per la eccessività della pena inflitta con conseguente mancata applicazione dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. e L. n. 689 del 1981, art. 58, comma 1, non avendo tenuto conto i giudici del merito della incensuratezza del Po., del fatto che non aveva agito per motivi egoistici, che non aveva prodotto alcun danno alle parti civili e che era stata comminata al ricorrente una pena molto più elevata di quella inflitta al Fa., autore materiale del reato.
17) La omessa motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9 pur non avendo il ricorrente violato alcun obbligo specifico.
18) La violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche per le ragioni sub 16).
19) La violazione di legge e la omessa motivazione in ordine alla inflitta pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Motivi della decisione
19. L'istanza di rinvio.
19.1. Preliminarmente bisogna rilevare che i difensori delle parti civili hanno fatto pervenire alla corte una dichiarazione di adesione alla astensione dalle udienze proclamata dall'organismo a ciò legittimato per l'udienza del 19 settembre 2012.
La Corte, con ordinanza in data 19 settembre 2012, ha disposto proseguirsi negli incombenti di deliberazione e successiva pubblicazione del dispositivo della sentenza in base alla considerazione che, in virtù della ordinanza di questa stessa Corte del 14 luglio 2012, in applicazione dell'art. 615 cod. proc. pen., dopo lo svolgimento ai sensi dell'art. 614 c.p.p. di tutte le difese orali e delle correlate conclusioni, era stata differita alla udienza del 19 settembre 2012 - la più prossima in relazione alla impossibilità di convocare il collegio nella stessa composizione fino al 18 settembre 2012 - la sola deliberazione.
Quindi ogni attività difensiva si era compiutamente esaurita alla udienza del 14 luglio 2012, non essendo consentita ai difensori nel giudizio di cassazione alcuna replica, nè essendo necessaria la presenza degli stessi alla lettura in udienza del dispositivo.
19.2. Nell'esame dei motivi dei ricorsi verrà, per evidenti ragioni logiche, dapprima affrontata la eccezione di difetto di giurisdizione sollevata da Ro.Jo. e successivamente le questioni comuni a più ricorrenti già oggetto di approfondita discussione nei precedenti gradi di giudizio.
Infine saranno valutati i ricorsi singolarmente.
20. Il difetto di giurisdizione.
20.1. Il colonnello Ro.Jo. era all'epoca dei fatti un militare statunitense della NATO addetto alla sicurezza della base di Aviano; è stato accusato, come già detto, di avere contribuito al sequestro di A.O. perchè fece entrare nella base il furgone con a bordo il rapito, che fece, poi, imbarcare su un volo diretto alla base di Ramstein in Germania.
Nel corso del giudizio di primo grado il colonnello W., procuratore militare statunitense, presentò una ed asserzione di giurisdizione, rivendicando la giurisdizione prioritaria degli Stati Uniti d'America; siffatta richiesta, alla quale aveva prestato adesione il Ministro di giustizia italiano, è stata disattesa dai giudici dei primi due gradi.
20.2. Con i motivi di ricorso secondo, terzo e quarto il Ro. ha impugnato la decisione di secondo grado, che aveva ritenuto sussistente la giurisdizione esclusiva dell'Italia, con argomenti già discussi nei due gradi di merito.
Con i motivi aggiunti, poi, il ricorrente eccepiva la incostituzionalità del D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, art. 1, che contiene norme di adattamento del trattato NATO/SOFA, per contrasto con l'art. 117 Cost., oltre che con le disposizioni del trattato di Londra - NATO/SOFA. I motivi di ricorso sono infondati e la eccezione di incostituzionalità è inammissibile, oltre ad essere manifestamente infondata.
20.3. La Convenzione di Londra del 1951.
La convenzione di Londra del 19 giugno 1951 tra le potenze della NATO, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 30 novembre 1955, n. 1335 ed entrata in vigore il 19 gennaio 1956, nel disciplinare lo status delle Forze Armate dislocate per ragioni di sicurezza collettiva in territorio di uno stato alleato, regola il concorso delle due giurisdizioni, quella dello stato di invio o di origine e quella dello Stato di soggiorno o residenza, secondo criteri che, tenuto conto dell'evolversi dei rapporti internazionali, costituiscono un temperamento del principio immunitario, all'epoca ritenuto vigente, inerente alla giurisdizione della bandiera (ubi signa, et iurisdictio) (vedi in motivazione S.U. 26 novembre 1959, Meitner).
Tradizionalmente, infatti, nel diritto penale militare internazionale era prevalso il principio della personalità su quello della territorialità del diritto penale, proprio del diritto comune e previsto dal nostro codice penale - art. 6 cod. pen. -, cosicchè la giurisdizione sui militari presenti in uno stato estero sia come truppe di occupazione, sia ad altro titolo, veniva esercitata esclusivamente dallo stato di origine sia per i reati militari che per quelli comuni; soltanto in epoca relativamente recente, ovvero con la seconda guerra mondiale, incominciarono ad essere stipulati trattati, che prevedevano un temperamento del principio della giurisdizione della bandiera.
E' in questo clima che venne stipulato il trattato di Londra, con il quale, fatta eccezione per il caso di giurisdizione esclusiva riservata all'uno o all'altro stato per i reati previsti soltanto dalla propria rispettiva legislazione, si riconosceva la priorità della giurisdizione dello stato di origine o di invio per i reati contro la sicurezza e i beni di esso e contro le persone e i beni dei militari - ed equiparati - dello stato medesimo, nonchè per "i reati risultanti da qualsiasi atto o negligenza compiuti nell'esecuzione del servizio" (art. 7, comma 3, lett. a), n. ii) del trattato NATO), mentre si affermava la priorità della giurisdizione dello stato di soggiorno negli altri casi.
Peraltro il diritto di priorità non è assoluto potendo lo stato, che ne è titolare, disporne e rinunciarvi, nel caso concreto, a favore dell'altro stato, a istanza di questo o di sua iniziativa, "per considerazioni particolarmente importanti".
Un sistema siffatto comporta, dunque, da un lato una reciproca rinuncia aprioristica ed astratta, quella dello stato di origine alla esclusività, fondata sul principio della giurisdizione della bandiera, della giurisdizione sulle proprie forze armate dislocate all'estero, e quella dello stato di soggiorno ad una parte del concreto esercizio di un potere sovrano sul proprio territorio;
comporta dall'altro lato il persistere di una giurisdizione concorrente sussidiaria, accanto a quella resa prevalente dal diritto di priorità suddetto, giacchè è possibile la rinuncia alla giurisdizione prioritaria, cosa che rende possibile all'altro stato l'esercizio della giurisdizione jure proprio, ovvero in base ad un diritto originario ed autonomo e non in base ad un atto di delega.
20.4. E' in questo quadro normativo che va affrontato il problema di giurisdizione posto dal ricorrente Ro., il quale ha sempre sostenuto che il fatto attribuitogli rientrava nella giurisdizione prioritaria nordamericana, essendovi stata "asserzione di giurisdizione" da parte del procuratore militare W. in base all'art. 7, comma 3, lettera a), punto ii) della Convenzione di Londra.
I giudici del merito hanno ritenuto che si vertesse, invece, in ipotesi di giurisdizione esclusiva dello stato italiano, essendo previsto il fatto commesso dal colonnello Ro. come reato dalla legislazione italiana, ma non da quella statunitense; in subordine i giudici dei primi due gradi hanno ritenuto che, comunque, non poteva essere riconosciuta la giurisdizione degli Stati Uniti d'America perchè il fatto non era stato commesso dal Ro.
"nell'esecuzione del servizio", condizione necessaria per ravvisare una ipotesi di giurisdizione concorrente.
20.5. La giurisdizione esclusiva italiana.
Orbene, nonostante le pregevoli considerazioni contenute nei motivi di ricorso, la decisione dei giudici del merito appare corretta, nel senso che al caso di specie deve essere applicato l'art. 7, comma 2, lett. b) della Convenzione di Londra perchè il fatto commesso dal colonnello Ro. è previsto come reato dalla legislazione italiana, ma non anche dalle leggi statunitensi.
Preliminarmente bisogna rilevare che quella del colonnello W., come sostenuto anche dalla difesa del Ro., è una asserzione di giurisdizione, che, presumibilmente, dovrebbe essere qualificata come istanza di rinunzia rivolta allo Stato italiano, mentre la nota del Ministro della giustizia italiano costituisce una adesione alla asserzione dell'autorità statunitense e non una rinunzia alla giurisdizione italiana, rinunzia che, peraltro, non vi sarebbe potuta essere vertendosi, per quel che si dirà, in ipotesi di giurisdizione esclusiva italiana.
Insomma l'adesione del Ministro italiano non può avere altro significato che quello di una condivisione delle ragioni poste a fondamento della richiesta americana.
Sempre in via preliminare va detto che la ed asserzione di giurisdizione sarebbe stata tempestiva se avesse fatto riferimento ad una ipotesi di giurisdizione esclusiva non essendovi dei termini per una tale dichiarazione, termini che sono, invece, previsti per la ipotesi della rinuncia dello stato in caso di giurisdizione prioritaria concorrente disciplinata dall'art. 7, comma 3, lett. c) della più volte citata Convenzione di Londra e dall'art. 1 del Regolamento attuativo SOFA, D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, secondo il quale la rinuncia non è più possibile dopo la notifica del decreto di citazione per il dibattimento di primo grado (vedi Sez. 4, n. 359 del 20 marzo 1964, Baer, rv. 099208); come si è già detto la ed asserzione di giurisdizione dovrebbe essere considerata una richiesta di rinuncia rivolta allo Stato italiano, avendo il colonnello W. fatto riferimento alle ipotesi previste dall'art. 7, comma 3, lettera b) punto ii) della Convenzione; in quanto tale essa sarebbe tardiva.
Prescindendo, comunque, da tale rilievo, va detto che è fuori discussione che il fatto attribuito al Ro. sia previsto come reato dalla legislazione italiana perchè l'art. 605 cod. pen. punisce, senza ulteriori specificazioni, chiunque priva taluno della libertà personale -, nel caso di specie, secondo l'ipotesi di accusa, rilevante al fine di determinare la giurisdizione, A.O. venne privato della libertà personale non in esecuzione di un mandato di arresto e venne ristretto non in istituti penitenziari italiani.
Tale fatto, invece, come correttamente ritenuto dai giudici di merito, non è previsto come reato dalla legislazione penale militare americana, quanto meno dalla legislazione successiva all'attentato alle due Torri gemelle di New York avvenuto in data 11 settembre 2001.
Il Ro., militare degli Stati Uniti d'America in servizio in Italia, è stato, infatti, accusato di avere, in concorso con agenti della CIA e con il supporto di agenti del SISMI, rapito A.O. e di averlo trasferito in un continente ed in un paese, precisamente in Egitto, ove è consentito l'interrogatorio sotto tortura, torture alle quali effettivamente risulta essere stata sottoposta la parte lesa.
Il rapimento in questione è, invero, inserito nella strategia della lotta al terrorismo internazionale, principalmente di matrice islamica, previsto da molti atti della legislazione americana sin dal 1995 ("l'Omnibus counterterrorism act" aveva autorizzato le renditions, regole poi inasprite dall'Antiterrorism Emendament act" del 1995 e convogliate nel "Comprehensive terrorism Prevention act" del 24 settembre 2001); tali atti prevedono, tra l'altro, le "extraordinary renditions", ovvero le straordinarie consegne di persone sospettate di terrorismo, che poi, ristrette in luoghi riservati, vengono sottoposte a duri interrogatori.
E' interessante notare come di recente il Parlamento Europeo, con la risoluzione in data 11 settembre 2012, che ha concluso un lungo lavoro di indagine, ha accertato che in molti Paesi Europei si erano verificati casi di renditions con la connivenza - nel senso che non vi erano state valide politiche per contrastare siffatta pratica -, se non con la partecipazione, degli stati interessati ed ha condannato duramente "le pratiche quali la consegna straordinaria, le prigioni segrete e la tortura, che sono proibite a norma del diritto nazionale ed internazionale in materia di diritti umani e che violano, tra l'altro, i diritti alla libertà, alla sicurezza, al trattamento umano, a non subire torture, al non respingimento, alla presunzione di innocenza, al giusto processo, alla assistenza legale e all'uguale protezione da parte della legge".
Orbene per risolvere le questioni prospettate si deve, quindi, fare riferimento non alla legislazione ordinaria americana che prevede il reato di sequestro di persona - kidnapping -, ma al codice penale militare americano, come correttamente ritenuto dai giudici di merito e come non è stato contestato dal ricorrente, dal momento che si tratta di fatto in ipotesi commesso da un militare statunitense della NATO in esecuzione di un servizio e, quindi, nell'esercizio delle sue funzioni, come sostenuto dal ricorrente stesso.
L'art. 134 c.p. militare statunitense, che sembrerebbe, per le ragioni indicate, in astratto applicabile a fatti come quello in contestazione, e che è intitolato kidnapping, fra gli elementi costitutivi del reato richiede che il fatto sia stato posto in essere volontariamente/consapevolmente (wilfully) e ingiustamente (wrongfully), ovvero "senza giustificazione o scusa"; inoltre la norma precisa che per essere punibile la condotta dell'accusato deve avere pregiudicato il buon ordine e la disciplina delle forze armate ed avere avuto l'attitudine a portare discredito sulle forze armate stesse.
Ed allora, interpretata tale norma alla luce della legislazione antiterrorismo dinanzi richiamata, è del tutto evidente che fatti come quello contestato al colonnello Ro. non sono previsti come reato dalla legislazione americana, perchè manca l'elemento costitutivo della mancanza di giustificazione - wrongfully -, essendo tali pratiche ampiamente giustificate dai provvedimenti legislativi indicati.
Ma, secondo il ricorrente, si dovrebbe parlare in siffatte ipotesi della presenza di una causa di non punibilità, essendo astrattamente prevista la repressione dei sequestri di persona, causa di non punibilità la cui esistenza non potrebbe che essere valutata e ritenuta dal giudice, dopo l'inizio di un procedimento; si tratterebbe, quindi, di ipotesi paragonabili alle cause di giustificazione previste dal nostro codice penale.
Senonchè la tesi non può essere seguita perchè la lettura della norma rende evidente che nella previsione normativa dell'art. 134 citato e nella legislazione antiterrorismo, che tale norma integra, non è previsto un istituto rapportabile alle nostre esimenti, ma semmai comparabile con una ed ipotesi di "antigiuridicità speciale", che talvolta si riscontra nella legislazione penale italiana, nel senso che il rapimento per essere perseguito come reato dalla legislazione penale militare statunitense deve essere wrongfully, ovvero senza giustificato motivo; l'elemento della ingiustizia diviene allora un vero e proprio elemento costitutivo del reato contestato; ciò a prescindere dalla ulteriore condizione di punibilità, ovvero dal discredito all'esercito americano che sia derivato dalla condotta in discussione.
Orbene, siccome le extraordinary renditions costituiscono pratiche lecite per la legislazione americana, l'elemento della ingiustizia richiesto dall'art. 134 citato non è nemmeno in astratto ipotizzabile; si vuoi dire cioè che la fattispecie concreta contestata al Ro. mentre corrisponde alla fattispecie descritta dall'art. 605 cod. pen., non corrisponde alla fattispecie legale astratta prevista dall'art. 134 c.p. militare nordamericano.
D'altra parte anche il ricorrente ha ammesso che le renditions non sono previste come reato dalla legislazione americana, quando ha sostenuto che, però, residuerebbe una area di punibilità delle stesse, fatto che consentirebbe alle Autorità nordamericane di iniziare un processo per il fatto contestato.
Ma la ed area di punibilità delle renditions concerne le modalità di esecuzione della detenzione e degli interrogatori, posto che l'operazione di sequestro, come risulta dalle stesse modalità di realizzazione e come è stato ammesso dallo stesso imputato, era stata debitamente autorizzata; ebbene le modalità di esecuzione della detenzione e della conduzione degli interrogatori attengono ad un momento successivo al rapimento e, quindi, costituiscono un post factum rispetto alla privazione della libertà di A.O., che è il fatto perseguito in Italia con il presente processo.
E tale fatto, che costituisce pacificamente reato in Italia, altrettanto pacificamente non era previsto come reato dalla legislazione americana vigente all'epoca dei fatti.
Del resto le considerazioni che precedono risultano in qualche modo confermate dal fatto che non è stato iniziato in America alcun processo contro i presunti autori del sequestro, come è lecito desumere dalle interviste rilasciate da alcuni imputati e che sono state richiamate dai giudici di merito e dallo stesso ricorrente;
anche se il Collegio non ignora che negli Stati Uniti d'America l'esercizio dell'azione penale non è obbligatorio.
20.6. La conclusione raggiunta che si versi nella ipotesi di giurisdizione esclusiva dello Stato italiano ai sensi dell'art. 7, comma 2, lett. b) della Convenzione di Londra, con conseguente infondatezza del secondo motivo di impugnazione, rende evidentemente superfluo esaminare il terzo motivo di impugnazione, con il quale si è sostenuto che il fatto sarebbe stato commesso nell'esecuzione del servizio, circostanza negata dai giudici di merito.
La circostanza che l'atto o la negligenza siano stati compiuti nella esecuzione del servizio - punto ii) della lett. b), comma 3, art. 7 della Convenzione - è, infatti, rilevante soltanto in caso di giurisdizione prioritaria concorrente prevista dal comma 3 dell'art. 7 della citata Convenzione di Londra e non anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva.
In ogni caso si è già in precedenza spiegato che il Ro. ha commesso il fatto contestatogli da militare americano nell'esercizio delle sue funzioni.
20.7. I contrasti sulla interpretazione delle norme del Trattato Infondato è anche il quarto motivo di impugnazione del Ro., con il quale il ricorrente ha, in buona sostanza, sostenuto che il giudice italiano si sarebbe dovuto adeguare alla decisione sulla appartenenza della giurisdizione presa dalle Autorità politiche statunitensi ed italiane, le uniche competenti ad interpretare le norme del trattato.
Come si è già notato era accaduto che dopo l'asserzione di giurisdizione del colonnello W., il Ministro di Giustizia italiano aveva manifestato la propria adesione, ma non aveva formalmente rinunciato alla giurisdizione italiana, peraltro non consentita in caso di giurisdizione esclusiva dello stato di soggiorno.
Si sarebbe, comunque, potuta ritenere in base a tali atti una comune volontà dei rappresentanti dei due Stati di consentire che l'eventuale processo a carico del Ro. si svolgesse negli Stati Uniti d'America.
L'impostazione del ricorrente non è, però, condivisibile perchè la previsione della Convenzione - art. 16 del Trattato - che le parti contraenti si impegnano, in caso di divergenze sulla interpretazione e l'applicazione delle norme del trattato, a non adire autorità giurisdizionali, si riferisce, con tutta evidenza, alla ipotesi che le Autorità politiche - la norma parla di parti contraenti - non siano d'accordo sulla interpretazione da dare ad alcune disposizioni.
In siffatta ipotesi le Autorità dei due Stati non potranno denunciare il trattato dinanzi ad una autorità giurisdizionale nazionale e/o sopranazionale - di giurisdizioni estranee parla il Trattato -, ma dovranno, eventualmente, avviare la procedura per una revisione della normativa di difficile o contestata interpretazione - par negociations -.
E' certo vero che nel diritto internazionale quando si parla di divergenza di interpretazione di norme di un trattato si intende fare riferimento allo Stato nel suo complesso e, quindi, alle varie articolazioni di esso, ivi compresa l'Autorità giudiziaria, ma è altrettanto vero che le difficoltà interpretative di norme di un trattato possono essere superate o attraverso il dibattito culturale tra giuristi ed esperti della materia, o, se non si riesce a risolvere le questioni in tal modo, con una revisione delle norme controverse del trattato, come si è in precedenza indicato.
Certo è, però, che quando un procedimento penale sia in corso spetterà al giudice interpretare le norme della Convenzione di Londra del 1951 che, come già detto, è stata ratificata dal Parlamento italiano ed è entrata in vigore, con Legge Esecuzione 30 novembre 1955, n. 1335, in Italia nel 1956; si tratta, pertanto, di norme vigenti in Italia, la cui interpretazione per risolvere il singolo e specifico caso concreto non può che spettare al giudice competente.
In conclusione, quindi, spetta ai Governi trattare per eventualmente cambiare le disposizioni delle convenzioni e dei trattati ritenute non rispondenti alle finalità perseguite o che, comunque, presentino problemi di interpretazione ed esecuzione, spetterà ai Parlamenti ratificare gli accordi raggiunti, spetta, invece, certamente al giudice interpretare le norme in vigore nel proprio Paese per la soluzione del caso sottoposto al suo esame.
Il riferimento al caso Greenpeace (Sez. 3, 27 gennaio 1997, Thierry Bonne) operato dal ricorrente è, invero, incongruo.
E' vero che in quel caso, che riguardava il comandante di una nave francese impegnata in un pattugliamento armato presso il porto di Brindisi nell'ambito di una operazione NATO, la Suprema Corte ritenne che il giudice dovesse prendere atto della volontà dello stato di origine - Francia - di esercizio prioritario di giurisdizione e di quella dello Stato di soggiorno - Italia - di astensione - rinuncia - dalla giurisdizione, ma si trattava di una ipotesi di giurisdizione prioritaria concorrente perchè esistevano i presupposti della doppia incriminazione e del fatto compiuto nella esecuzione del servizio, e non di giurisdizione esclusiva come nel caso in discussione nel presente processo.
Quanto alla dottrina richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie tesi deve osservarsi che essa si riferisce alle ipotesi di rinuncia alla giurisdizione prioritaria concorrente, che si ritiene non sia sindacabile dalla Autorità giudiziaria; su ciò si può anche concordare, dal momento che la rinuncia è un atto discrezionale, che può essere esercitato soltanto dal competente organo politico-amministrativo, come è stato rilevato anche dalla giurisprudenza (vedi Cass., Sez. 5, 9 luglio 1998, n. 4640), ma nel caso di specie, come si è già avuto modo di rilevare, non si verte in una ipotesi di giurisdizione prioritaria concorrente, che consente la rinuncia, ma di giurisdizione esclusiva dello stato di soggiorno, che non consente alcuna rinuncia alla giurisdizione per la semplice e risolutiva ragione che nello stato di origine il fatto compiuto non è previsto come reato, cosicchè non potrebbe giustificarsi in alcun modo una rinuncia alla giurisdizione, che avrebbe l'unico effetto di impedire di accertare la verità su un fatto, in ipotesi anche grave, commesso sul territorio italiano e di garantire l'impunità all'autore del fatto.
Sotto tale profilo l'adesione del Ministro di Giustizia italiano alla asserzione di giurisdizione degli Stati Uniti d'America, non può avere, come già rilevato, il valore di rinuncia alla giurisdizione proprio perchè non si verte in una delle ipotesi in cui è consentito rinunciare alla giurisdizione.
20.8. La eccezione di incostituzionalità del D.P.R. n. 1666 del 1956, art. 1.
Con i motivi aggiunti il ricorrente ha dedotto, in subordine, la incostituzionalità del D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, art. 1, commi 2, 4, 6 e 8 per violazione dell'art. 117 Cost. in relazione agli artt. 7 e 16 della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 (Trattato NATO SOFA).
La eccezione di incostituzionalità è manifestamente infondata, tenuto conto di quanto detto in precedenza ed, in particolare, del fatto che si verte in ipotesi di giurisdizione esclusiva dello stato di soggiorno.
Il D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666 è un regolamento attuativo del NATO SOFA che all'art. 1 detta regole per la proposizione della rinuncia alla giurisdizione prevedendo, tra l'altro, anche il termine finale entro il quale può essere presentata, ovvero fino alla notifica del decreto di citazione per il dibattimento di primo grado.
La prima considerazione in merito alla sollevata questione di incostituzionalità è che non è possibile eccepire la incostituzionalità di un regolamento, non trattandosi di legge o atto avente forza di legge, a meno che non si contesti la costituzionalità del potere regolamentare che trovi la sua fonte in una disposizione di legge, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.
Il D.P.R. n. 1666 del 1956 è, invero, certamente un regolamento e non un atto avente forza di legge come precisato dalla stessa Corte Costituzionale (Corte Costituzionale 12 ottobre 1990, n. 446).
L'eccezione di incostituzionalità è, dunque, inammissibile.
In ogni caso i rilievi del ricorrente sul punto sono manifestamente infondati.
Il citato D.P.R., come già rilevato, detta disposizioni sulla rinuncia e sulla istanza o richiesta di rinuncia e prevede una procedura specifica che il Ministro di giustizia deve seguire prima di rinunciare o accettare una richiesta di rinuncia proveniente dallo stato di invio; ovviamente siffatta procedura è dettata per le ipotesi di giurisdizione concorrente perchè soltanto in siffatte ipotesi è consentita la rinuncia di giurisdizione.
Nel caso di giurisdizione esclusiva - è tale è quella di cui al presente processo - non vi è, invece, la previsione di procedure particolari perchè in siffatti casi è l'autorità giudiziaria a procedere all'accertamento del fatto ed al giudizio, in quanto in tali casi non è consentita alla Autorità politico-amministrativa alcuna rinuncia di giurisdizione.
E' allora del tutto ragionevole che non si prevedano in tali ipotesi procedure particolari per l'asserzione di giurisdizione proprio perchè non è previsto alcun atto o dichiarazione da parte dell'Autorità politica, cosicchè l'unico significato che può essere attribuito alla ed asserzione di giurisdizione è quella, come già osservato, di una richiesta di rinuncia di giurisdizione, non consentita in ipotesi di giurisdizione esclusiva.
21. I problemi relativi alle notifiche degli atti.
21.1. I ricorrenti Ro.Jo. - primo motivo di impugnazione - c.e., ca.vi., Gu.Jo.Th., K.J.R., J.A.L., I.B. L. - primo motivo di impugnazione -, e F.V. e ha.ja.th. - primo motivo di impugnazione - hanno eccepito la nullità di numerosi atti processuali perchè notificati con il rito previsto per gli imputati latitanti, senza che fossero state disposte ricerche all'estero, pur essendo nota la residenza all'estero di quasi tutti gli imputati.
In particolare Ro.Jo., come meglio specificato in narrativa, denunciava la illegittimità della dichiarazione di latitanza ed eccepiva la nullità del decreto che dispone il giudizio emesso il 16 febbraio 2007, essendo noto alle Autorità italiane che era stato destinato ad altro incarico negli Stati Uniti d'America;
denunciava, inoltre, la riduttiva ed erronea applicazione del trattato di mutua assistenza in materia penale (MLAT) tra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d'America del 9 novembre 1982, recepito in Italia con la L. 26 maggio 1984 n. 224.
I ricorrenti c., ca., Gu., K., J. e I., che, secondo l'Accusa, avrebbero partecipato soltanto alla fase preparatoria del sequestro ed avrebbero, salvo la I., lasciato l'Italia prima che il delitto venisse consumato, denunciavano la irritualità della dichiarazione di latitanza e la conseguente nullità delle notifiche degli atti, ivi compresa la vocatio in ius e la dichiarazione di contumacia, essendo nota la loro residenza all'estero.
Infine anche i ricorrenti F. e ha. eccepivano la irritualità della dichiarazione di latitanza e la conseguente nullità della notifica dell'avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen. per motivi sostanzialmente analoghi agli altri ricorrenti. F. e ha. eccepivano anche la incostituzionalità dell'art. 165 cod. proc. pen., che prevede che le notifiche degli atti ai latitanti vengano eseguite mediante consegna di copia dell'atto al difensore, per disparità di trattamento rispetto all'imputato dichiarato irreperibile e, quindi, per violazione degli artt. 24, 3, 10, 97 e 111 Cost..
Naturalmente si tratta di un motivo di ricorso fondato su motivi non esclusivamente personali e, dunque, utile agli effetti della estensione ex art. 587 cod. proc. pen., a tutti gli altri imputati ricorrenti americani, i quali, per questo profilo, si trovano nella stessa situazione processuale.
La irritualità denunciata si sarebbe verificata sin dalla notifica del primo atto al difensore degli imputati dichiarati latitanti.
21.2. In punto di fatto è accaduto che nei confronti degli imputati americani venne emessa dal GIP di Milano ordinanza con la quale veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere.
La esecuzione della misura non fu possibile perchè gli imputati, ricercati negli alberghi che avevano frequentato durante la loro permanenza in Italia e nelle abitazioni, sempre in Italia, ove alcuni di loro risultavano dimoranti, non vennero trovati.
Sulla base del verbale di vane ricerche, che indicava tutte le ricerche effettuate nel nostro Paese, e della considerazione che gli imputati si erano allontanati dall'Italia per sottrarsi alla esecuzione della predetta misura cautelare, veniva emesso decreto di latitanza e nominato un difensore di ufficio.
E' bene ricordare che dalla Procura di Milano venne richiesto più volte l'avvio della procedura di estradizione, ma il Ministro di giustizia non ritenne opportuno richiederla.
A questo punto tutti gli atti da notificare agli imputati vennero consegnati in copia ai difensori di ufficio nominati, così come prescritto dall'art. 165 cod. proc. pen., comma 1.
La posizione di L., che aveva tempestivamente nominato un difensore di fiducia e che non è ricorrente sul punto, del Ro.
e della D.S. - anche quest'ultima, però, sul punto non ha presentato un motivo di ricorso -, è in parte diversa, sia perchè il Ro. era stato dichiarato irreperibile e, poi, in seguito alla emissione della misura cautelare, latitante, sia perchè il Ro. e la D.S. nel corso del dibattimento di primo grado avevano nominato difensori di fiducia, che avevano ricevuto, poi, regolarmente gli avvisi loro spettanti e che avevano partecipato alle udienze celebrate in primo e secondo grado.
21.3. Il punto centrale delle contestazioni dei ricorrenti è costituito dalla pretesa irritualità del verbale di vane ricerche che non sarebbe stato preceduto da tutte le ricerche possibili e necessarie al fine di accertare la effettiva irrintracciabilità dei ricorrenti; in particolare questi ultimi si dolevano del fatto che non erano state effettuate anche ricerche all'estero come prescritto dall'art. 169 cod. proc. pen., comma 4, disposizione prevista quale presupposto per dichiarare la irreperibilità, ma applicabile, secondo l'impostazione dei ricorrenti, in via analogica, al latitante, trattandosi di situazioni processuali analoghe.
L'impostazione dei ricorrenti non è corretta ed i motivi di ricorso, con i quali è stata dedotta la nullità delle notifiche eseguite ai latitanti ai sensi dell'art. 165 cod. proc. pen., debbono essere rigettati.
21.4. Si deve in primo luogo rilevare che, secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità (vedi Sez. 1, n. 15410 del 25 marzo-22 aprile 2010, rv. 246751, Arizzi; S.U.P., 27 ottobre 2004, n. 119/2005, Palumbo, rv. 229539) la nullità concernente il decreto di latitanza e le successive notifiche, pur rivestendo carattere generale (Sez. 1, 17 dicembre 2008, n. 5032, Caccavallo, rv. 243345), non è iscrivibile nel novero delle nullità assolute.
Ed, infatti, in tema di notificazione della citazione all'imputato, la nullità assoluta ed insanabile prevista dall'art. 179 cod. proc. pen. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza dell'atto da parte dell'imputato; la medesima nullità, invece, non ricorre nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, essendo in tal caso applicabile la sanatoria di cui all'art. 184 cod. proc. pen..
Ciò comporta che, non avendo - o, comunque, non risultando dal ricorso, che sul punto manca, quindi, della necessaria specificità - il difensore di fiducia delle parti interessate Ro. e D. S. eccepito, come avrebbero potuto e dovuto fare (Sez. 5, 12 maggio 2004, Pastore, rv. 229520), nel corso del giudizio di primo grado la invalidità degli atti impugnati risalenti alla fase processuale anteriore, la nullità non avrebbe potuto più essere dedotta (nè rilevata) dopo la scadenza del termine di decadenza, scandito dalla deliberazione della sentenza di primo grado, per il divieto stabilito dall'art. 180 cod. proc. pen. (Sez. 1, 7 ottobre 2009, n. 41305, Gjoka, rv. 245037).
21.5. In ogni caso, pur volendo prescindere dalle considerazioni che precedono, anche perchè sul punto vi è contrasto di giurisprudenza (vedi per la tesi contraria a quella indicata Sez. 1, 4 marzo-10 maggio 2010, n. 17703, Rozsaffy, che ritiene si tratti di una ipotesi di nullità assoluta) le doglianze sul punto del Ro. e degli altri ricorrenti indicati non sono fondate per altre ed assorbenti ragioni.
E' innegabile la differenza tra lo stato di latitanza e quello di irreperibilità, dal momento che la latitanza presuppone, come precisato dall'art. 296 cod. proc. pen., la volontaria sottrazione del soggetto alla cattura, con la precisazione che ai fini della volontarietà della sottrazione ad un provvedimento restrittivo della libertà personale non occorre dimostrare la conoscenza della avvenuta emissione di tale provvedimento, essendo sufficiente che l'interessato si ponga in condizione di irreperibilità, sapendo che quel provvedimento può essere emesso (Sez. 1, 25 novembre-20 dicembre 2004, n. 48739, CED 230390).
In effetti il provvedimento impositivo della misura cautelare privativa o limitativa della libertà personale una volta emesso verrà trasmesso alla polizia giudiziaria per l'esecuzione; obiettivo della polizia è, quindi, quello di procedere all'arresto dell'indagato/imputato; per pervenire a tale risultato la polizia sarà libera di effettuare ricerche, obbligatorie e permanenti, senza essere vincolata a determinati luoghi di ricerca, come avviene nel caso della irreperibilità - artt. 157 e 159 cod. proc. pen. - (Sez. 2, 20 ottobre-11 dicembre 2009, n. 47229, CED 245425).
Le ricerche verranno dispiegate dapprima sul territorio nazionale con un controllo di tutte le possibili dimore, ancorchè temporanee; tali ricerche dovranno essere effettuate con particolare cura ed incisività quando si tratti di cittadini stranieri.
Le ricerche dovranno, poi, essere estese in campo internazionale tramite Interpol, anche se, secondo un indirizzo giurisprudenziale, è sufficiente l'accertata assenza del ricercato dal territorio dello Stato (Sez. 1, n. 15410, del 25 marzo 2010, citata), utilizzando gli strumenti giuridici a tanto predisposti.
Se le ricerche danno esito negativo la polizia redigerà il verbale di vane ricerche, così come prescritto dall'art. 295 cod. proc. pen., "indicando specificamente le indagini svolte".
Al deposito del verbale di vane ricerche non consegue automaticamente lo stato di latitanza, essendo necessaria una valutazione da parte del giudice della sussistenza dei due presupposti per dichiarare lo stato di latitanza, ovvero l'effettiva situazione di irrintracciabilità del ricercato e, quindi, la congruenza e la sufficienza delle ricerche effettuate, e la volontaria sottrazione dello stesso alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio e all'obbligo di dimora (ex multis Sez. 6, 26 novembre 2003-24 gennaio 2004, n. 2541, CED 228266) sotto l'alternativo profilo della effettiva conoscenza della avvenuta emissione del provvedimento o della consapevolezza che potrebbe essere emesso.
Se vi sono elementi nel processo per ragionevolmente ritenere che un ricercato si trovi in un paese estero, l'Autorità giudiziaria attiverà le procedure all'uopo previste per pervenire alla cattura dello stesso, ovvero solleciterà l'emissione del MAE se si tratta di paesi dell'Unione Europea o la procedura di estradizione quando si tratti di paesi extra Unione con i quali sussista un trattato che consenta l'estradizione.
E' bene ricordare che lo stato di latitanza, una volta accertato, permarrà per tutto il tempo in cui il soggetto si sottrarrà volontariamente alla cattura (Sez. 4, n. 2024, del 2 settembre 1996) e potrà cessare, oltre che per le cause indicate dall'art. 296 c.p.p., comma 4, - "revoca o perdita di efficacia della misura e estinzione del reato o della pena per cui il provvedimento è stato emesso" -, soltanto con la cattura o la costituzione spontanea ovvero con l'arresto dell'imputato all'estero a fini estradizionali (Sez. 2, 1 luglio-18 settembre 2002, n. 31253, CED 222358).
Come si già notato le ricerche, anche dopo l'emissione del decreto che dichiari lo stato di latitanza, non si arrestano, ma continuano, proprio perchè la finalità degli istituti in esame è quella di assicurare l'esecuzione del provvedimento e porre fine, con la cattura dell'indagato/imputato, allo stato di latitanza.
Naturale corollario di tale impostazione è che dopo la declaratoria dello stato di latitanza non vi è più bisogno nel corso del processo di nessun altro provvedimento formale che accerti lo stato delle ricerche, a differenza di ciò che accade in tema di irreperibilità.
L'art. 165 cod. proc. pen. disciplina le modalità di notificazione degli atti all'imputato latitante o evaso, essendo quest'ultimo equiparato al latitante a norma dell'art. 296 cod. proc. pen., e stabilisce, fatta salva l'ipotesi del latitante che abbia ritualmente eletto domicilio e della notifica avvenuta a mani del latitante (Sez. 5, 27 ottobre 1997-25 febbraio 1999, n. 2483, Vista, CED 213075), che le notificazioni ......siano (sono) eseguite mediante consegna di copia (dell'atto da notificare) al difensore di fiducia, se sia stato nominato, o di ufficio.
21.6. Ben diversa è, invece, la disciplina prevista per la condizione di irreperibilità, che, è bene ricordare, a differenza della latitanza, può anche essere involontaria ed incolpevole.
In questo caso le norme non sono preordinate alla esecuzione del provvedimento limitativo della libertà dell'indagato/imputato, ma sono finalizzate a rendere possibili le notificazioni degli atti processuali.
Ed, infatti, se la prima notificazione non è possibile secondo una delle modalità previste dall'art. 157 cod. proc. pen., si debbono predisporre nuove ricerche nei luoghi puntualmente indicati dall'art. 159 c.p.p..
L'esito negativo delle nuove ricerche legittima l'emissione del decreto di irreperibilità, con la conseguente nomina di un difensore di ufficio all'imputato che ne sia privo e la notifica degli atti mediante consegna di copia dell'atto da notificare al difensore;
quindi le modalità di notificazione degli atti al latitante e all'irreperibile coincidono.
Una delle differenze è data dal fatto che mentre per l'irreperibile bisogna rinnovare ad ogni cadenza processuale le ricerche, con conseguente nuova emissione del decreto di irreperibilità, la dichiarazione di latitanza varrà per tutto il processo; ciò per due buone ragioni: la prima è che le ricerche di una persona colpita da una misura cautelare custodiale non si arrestano con il verbale di vane ricerche e l'accertamento dello stato di latitanza, mentre, dichiarata l'irreperibilità, le relative ricerche cessano e bisogna periodicamente riattivarle e rinnovarle; la seconda è che per la latitanza viene accertata la volontaria sottrazione alla cattura e, quindi, la consapevolezza dell'imputato della sua condizione processuale, mentre la irreperibilità, come già rilevato, può anche essere involontaria ed incolpevole (Sez. 5, 18 dicembre 1997-19 maggio 1998, n. 5807, Volpe, CED 210752).
Quando dagli atti risulti che l'imputato sia residente o dimorante all'estero e si sia a conoscenza precisa del recapito prima di procedere alla notifica degli atti mediante consegna al difensore è necessario rispettare le formalità previste dall'art. 169 c.p.p., commi 1, 2 e 3 - invio di lettera raccomandata con invito ad eleggere domicilio in Italia -.
Se, invece, si ha notizia del fatto che l'imputato risieda o dimori all'estero, ma le notizie sono insufficienti per l'invio della raccomandata, prima di pronunciare decreto di irreperibilità l'Autorità giudiziaria dispone le ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali - art. 169 c.p.p., comma 4 -.
21.7. La procedura prevista dall'art. 169 cod. proc. pen. è chiaramente preordinata alla emissione del decreto di irreperibilità, esplicitamente richiamato dal comma IV del predetto articolo, e, quindi, per effettuare le notifiche ad imputati liberi non rintracciabili.
Il problema che si pone è vedere se dette disposizioni possano, o meglio debbano, applicarsi anche all'imputato dichiarato latitante.
Orbene sul punto vi è un contrasto tra una giurisprudenza maggioritaria e consolidata, che ha sempre ritenuto che la differenza dei due istituti legittima una disciplina diversa, anche per le ed ricerche all'estero (tra le tante vedi Sez. 6, n. 29702 del 10 aprile- 16 luglio 2003, rv. 225483, Dattilo; Sez. 5, 18 dicembre 1997-19 maggio 1998, n. 5807, Volpe, CED 210752 e, più recentemente, Sez. 1, 25 marzo-22 aprile 2010, rv. 246751, Arizzi), e una giurisprudenza più recente di segno diverso, secondo la quale in via analogica dovrebbe ritenersi applicabile ai fini della legittimità dell'emissione del decreto di latitanza la previsione di cui all'art. 169 c.p.p., comma 4, "essendo tale procedura elemento per valutare il grado di completezza delle ricerche" (così Sez. 1, 24 aprile-8 maggio 2007, n. 17592, CED 236504; Sez. 6, 22 gennaio-11 febbraio 2009, n. 5929, CED 243064; Sez. 1, 16 febbraio-9 marzo 2010, n. 9443, CED 246631; Sez. 3, n. 6679, 10 gennaio-20 febbraio 2012, rv. 252444, Vorovei).
Orbene è certamente apprezzabile lo sforzo della giurisprudenza più recente di rendere le disposizioni in materia di latitanza garantiste nella misura massima possibile, ma questo Collegio ritiene di dare continuità alla giurisprudenza che tiene maggiormente conto delle profonde differenze esistenti tra gli istituti della latitanza e della irreperibilità, come dianzi delineati, delle finalità del tutto differenti delle disposizioni che li regolano, di cui pure si è dato atto, dei presupposti del tutto differenti che legittimano la declaratoria di irreperibilità e quella di latitanza, e segnatamente, per quanto riguarda la latitanza, quello della volontarietà della sottrazione alla cattura e, quindi, della conoscenza da parte del ricercato della emissione, o della possibile emissione, di un provvedimento restrittivo in suo danno, nonchè della esistenza di un procedimento penale.
Sarebbe certo singolare avvertire con lettera raccomandata un imputato della esistenza di un provvedimento restrittivo a suo carico perchè potrebbe essere interpretato come un invito alla fuga;
insomma si comprometterebbe l'obiettivo tipico della misura cautelare custodiale che è quello dell'arresto dell'imputato.
Ma, in verità, le citate sentenze non contestano la inapplicabilità del comma 1, art. 169 c.p.p., comma 4 perchè è del tutto evidente che nel caso di notizia certa in ordine alla residenza o dimora all'estero del ricercato l'Autorità giudiziaria dovrà attivarsi per chiedere ed ottenere l'estradizione del ricercato o l'esecuzione del MAE. Obiezioni non molto diverse, però, non possono che valere anche per le ricerche di chi probabilmente si trovi all'estero perchè anche in tal caso l'Autorità giudiziaria ha il dovere di attivare le procedure previste dal diritto internazionale per assicurare la cattura del ricercato.
Non si tiene conto nelle sentenze che ritengono debba applicarsi l'art. 169 cod. proc. pen., comma 4 anche al latitante del fatto che il ricercato dichiarato latitante, a differenza dell'irreperibile, è perfettamente consapevole - volontaria sottrazione - della esistenza di un procedimento a suo carico e, quindi, è nelle condizioni per nominare un difensore di fiducia e per eleggere o dichiarare un domicilio in Italia in modo da avere notizie circa gli sviluppi del processo.
Ed allora quale è il senso delle ricerche ex art. 169, comma 4, che sono finalizzate a conoscere l'indirizzo preciso dell'imputato al fine di spedire la raccomandata prevista dal comma 1 del predetto articolo e metterlo in condizione di eleggere domicilio, cosa che, come si è detto, il latitante è certamente in grado di fare? Ciò a prescindere dal fatto che, come detto, appare incongruo invitare il ricercato alla fuga.
Ma, si obietta, in effetti il latitante non è altro che un irreperibile qualificato dalla volontaria sottrazione e, quindi, essendo le situazioni sostanzialmente identiche, in via analogica dovrebbero applicarsi le disposizioni previste per l'irreperibile.
Ma anche siffatta obiezione non coglie nel segno.
Ed, infatti, la interpretazione ed applicazione analogica di norme penali è possibile quando si tratti di istituti analoghi e quando non sia prevista una disciplina specifica per ciascuno di essi.
Nel caso di specie non solo è dubbia la analogia tra i due istituti la cui struttura normativa ha certamente dei punti di contatto, senza che ciò possa cancellare diversità di funzione e di regolazione;
nè esiste alcun vuoto normativo perchè quando il pubblico ministero sia a conoscenza di un luogo all'estero dove possa essersi rifugiato il latitante, dovrà attivare le procedure di estradizione.
Ed allora se è prevista una disciplina specifica non si vede per quale ragione si debbano applicare le norme specificamente previste per la declaratoria di irreperibilità.
Ma, alla fine, la giurisprudenza qui non condivisa finisce con l'affermare che l'adozione della procedura prevista dal comma 4 dell'art. 169 cod. proc. pen. costituirebbe un elemento per valutare il grado di completezza delle ricerche, il cui esito negativo costituisce il presupposto per il verbale di vane ricerche (l'argomento è particolarmente sviluppato da Sez. 3, n. 6679, del 10 gennaio 2012, Vorovei, citata).
Anche siffatto argomento, però, non appare convincente perchè, come si è già notato, le ricerche della persona colpita da un provvedimento restrittivo o limitativo della libertà non sono vincolate, quanto ai luoghi di ricerca, dai criteri indicati in tema di irreperibilità (vedi Sez. 2, n. 04802 del 25 settembre 1997 e Sez. 6, n. 29702 del 16 luglio 2003), circostanza non contestata dalle più volte richiamate sentenze, sicchè resta inspiegata la ragione per la quale soltanto le ricerche previste dall'art. 169 cod. proc. pen., comma 4 espressamente previste in tema di irreperibilità, dovrebbero applicarsi anche alla latitanza.
Infine anche il riferimento alla legislazione CEDU - art. 6 sul diritto di partecipazione al giudizio - ed all'art. 111 Cost., oltre che alla giurisprudenza Europea in tema di giudizio in absentia non appare congruo.
E' del tutto evidente che l'ordinamento processuale deve tendere ad evitare che il giudizio penale si svolga in assenza dell'imputato (così Sez. 5, n. 2956 del 21 novembre 2001, Mangia), ma è proprio ciò che si cerca di garantire con la emissione del provvedimento di misura cautelare e con la previsione che l'imputato possa essere ricercato ovunque si ritenga che possa dimorare, anche all'estero con le speciali procedure estradizionali; non sembra proprio possibile affermare che la normativa in tema di latitanza violi la norma CEDU e la giurisprudenza sopranazionale in materia.
Del resto anche la Corte di Strasburgo (CEDU 6 novembre 2007, Hany/v.
Italia) in un caso non dissimile da quello attuale, nel quale il ricorrente si doleva che la irregolare notifica dell'avviso per la udienza preliminare non gli aveva consentito di accedere al giudizio abbreviato, rilevava che, tenuto conto del fatto commesso, l'imputato non poteva non prevedere che iniziasse un procedimento penale.
Infine i rilievi della Corte Europea dei diritti dell'uomo non hanno prodotto un mutamento della legislazione processuale in tema di processo in contumacia, di dichiarazione di irreperibilità e di latitanza, ma hanno determinato una modifica dell'art. 175 cod. proc. pen. in materia di restituzione dei termini per impugnare, riconoscendo ampie facoltà impugnatorie all'imputato contumace che non abbia avuto conoscenza effettiva del processo, nonostante il suo difensore abbia tempestivamente presentato impugnazione avverso la medesima sentenza (ampliamento quest'ultimo riconosciuto dalla Corte di Cassazione - Sez. 6, 18 dicembre 2009 - 3 febbraio 2010, n. 4695, CED 245852 - a seguito di declaratoria di incostituzionalità dell'art. 175 cod. proc. pen., comma 2 da parte di Corte Costituzionale n. 317 del 2009).
21.8. Tanto premesso in diritto si deve rilevare che infondate sono anche le generiche contestazioni dei ricorrenti in ordine alla pretesa irritualità delle dichiarazioni di latitanza.
Premesso che la valutazione della volontaria sottrazione ad un provvedimento coercitivo e della completezza delle ricerche è una valutazione di merito, va detto che la corte di secondo grado ha spiegato che gli imputati erano stati cercati nei luoghi in Italia ove era possibile che dimorassero, che erano stati compiuti accertamenti, per eventuali recapiti sul territorio nazionale, che avevano dato esito negativo, che si era provveduto alla diffusione delle ricerche in campo internazionale, che si era richiesto al Ministro di giustizia di attivare la procedura di estradizione, essendovi in atti elementi che consentivano di ritenere che gli imputati potessero trovarsi negli Stati Uniti d'America; si tratta di un complesso di disposte ricerche ampie, articolate ed approfondite.
Quanto al requisito della volontaria sottrazione all'ordine di custodia cautelare bisogna notare che la giurisprudenza ha sempre ritenuto che la fuga all'estero, dopo la commissione di un reato, in previsione di una possibile indagine e della possibile emissione di un provvedimento cautelare, si risolve, dopo che il provvedimento restrittivo sia stato emesso, in un volontario sottrarsi alla esecuzione dello stesso ed attribuisce la qualifica di latitante (Sez. 4, 18 luglio 1998, n. 7098).
Naturalmente tale principio è certamente valido per un italiano che fugga all'estero, ma per l'allontanamento di un residente all'estero è necessario un accertamento più rigoroso, perchè non si può escludere, come hanno sostenuto i ricorrenti F. ed ha., che si tratti semplicemente di un ritorno a casa.
Accertamento che i giudici di merito hanno certamente compiuto perchè hanno messo in evidenza che alcuni imputati, quelli che avevano partecipato alla preparazione del rapimento con pedinamenti e studio dei luoghi, andarono via dall'Italia non appena terminato il lavoro, ovvero prima del rapimento, mentre quelli che, invece, avevano partecipato materialmente al sequestro, subito dopo la consumazione dello stesso; inoltre bisogna rilevare che stranamente anche le persone che ricoprivano importanti incarichi istituzionali, come il colonnello Ro. ed i consoli L. e D.S., vennero immediatamente e pressochè contemporaneamente destinati ad altri incarichi negli Stati Uniti d'America.
Tutti erano perfettamente coscienti di avere commesso un fatto di notevole gravità per la legge italiana e che su tale fatto si sarebbe certamente aperta una indagine - l'inizio dell'azione penale in Italia è obbligatoria, circostanza ben nota a chi lavori per lungo tempo in Italia, come gli agenti consolari ed i militari NATO-, che non poteva che sfociare, in caso di esito positivo della stessa, nella emissione di provvedimenti di custodia cautelare.
A ciò aggiungasi che il fatto ebbe una ampia risonanza mediatica e fu oggetto di numerosi articoli di stampa, nazionale ed estera.
Inoltre alcuni imputati, come ad esempio L., rilasciarono interviste sul grave episodio, mentre altri, come la D.S., intrapresero iniziative presso il Governo americano per ottenere assistenza legale e per vedersi riconoscere l'immunità consolare, fatti che denotano conoscenza della esistenza del procedimento in corso e consapevolezza del rischio di essere arrestati se fossero venuti in Italia.
Nel ricorso della D.S., inoltre, si legge che una persona - Cs.Su. - aveva inviato una e-mail a L.R. con la quale comunicava che To. le aveva detto di avere ricevuto da S. un messaggio con l'invito a non recarsi in Italia; la D. S.S. ha riferito l'episodio negando, soltanto, che la S. della mail potesse identificarsi nella ricorrente.
Prescindendo, per il momento, dal problema della identificazione della S. indicata nel messaggio con la D.S., va detto che gli elementi indicati rendono legittima la valutazione dei giudici di merito in ordine alla consapevolezza dei ricorrenti della possibilità di essere oggetto di provvedimenti cautelari restrittivi della libertà, cosicchè il loro precipitoso allontanamento dall'Italia del tutto ragionevolmente è stato ritenuto diretto a sottrarsi alla esecuzione di una misura custodiale.
Tenuto conto di tutto quanto detto e della accertata volontà di sottrarsi alle ricerche degli imputati, infondato appare anche il rilievo dei ricorrenti F. ed ha. secondo i quali la volontaria sottrazione per i residenti all'estero si potrebbe verificare soltanto in seguito alla attivazione della procedura di estradizione ed alla sottrazione alla stessa.
21.9. Sono infondati anche gli altri rilievi difensivi del Ro.
sul punto in discussione.
La irritualità della declaratoria della sua irreperibilità, dichiarata prima che venisse emesso il provvedimento custodiale, infatti, non ha prodotto alcuna nullità perchè con il rito degli irreperibili non risultano essere stati notificati atti; in ogni caso il motivo di ricorso sul punto è privo di specificità.
Non è ravvisabile, inoltre, alcuna violazione del MLAT, ovvero del trattato di mutua assistenza in materia penale tra la Repubblica italiana e gli Stati Uniti d'America del 9 novembre 1982 e recepito in Italia con la L. 26 maggio 1984, n. 224.
E' certo vero che la normativa in questione prevede l'impegno dei due Stati a prestarsi reciproca assistenza per rendere più spedite le istruttorie ed i procedimenti penali e che nella assistenza rientra anche l'attività di ricerca delle persone, oltre alla notifica di documenti, al sequestro e confisca di beni ed altre importanti attività giudiziarie, come precisato, per quel che qui interessa, dall'art. 1, commi 2 e 3 e art. 2, lett. a) del predetto trattato, ma è del tutto evidente che tale assistenza si riferisce alla ricerca di persone che sono chiamate a rendere testimonianza, tanto è vero che il trattato stesso prevede le condizioni necessarie per prestare assistenza e le procedure da adottare, ma non alla ricerca di persone delle quali uno dei due Stati chieda la cattura.
Per tale ultima ipotesi, infatti, è previsto uno specifico trattato di estradizione, che prevede procedure del tutto diverse.
21.10. I ricorrenti F.V. e ha.ja.th.
hanno anche sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 165 cod. proc. pen., essendo la posizione dell'irreperibile maggiormente garantita rispetto a quella del latitante.
I ricorrenti hanno poi eccepito la incostituzionalità del processo con imputato latitante per violazione del principio del contraddittorio - art. 111 Cost. - e conseguente violazione dell'art. 24 Cost..
L'eccezione è manifestamente infondata.
Quanto ai primo profilo va detto che le suindicate profonde differenze esistenti tra gli istituti della irreperibilità e della latitanza, ed in particolare il fatto che uno dei presupposti della dichiarazione di latitanza è costituito dalla volontaria sottrazione alle ricerche e, quindi, dalla conoscenza della pendenza di un procedimento, o di un possibile e probabile procedimento a carico, legittimano anche una diversa disciplina, che, come si è notato, appare del tutto ragionevole, senza che sia ravvisabile, pertanto, alcuna disparità di trattamento (sul punto vedi anche Sez. 4, 22 agosto-2 settembre 1996, n. 2024, CED 206262).
Manifestamente infondato appare anche l'altro profilo dedotto, ovvero la pretesa violazione degli artt. 111 e 24 Cost. operata attraverso la regolazione dell'istituto della latitanza e segnatamente dagli artt. 165 e 296 cod. proc. pen..
Presupposto del ragionamento dei ricorrenti è che si tratti di un processo celebrato nella totale ignoranza dell'imputato, presupposto non esistente sia in astratto, essendo la normativa in materia di latitanza fondata sul presupposto soggettivo costituito dalla volontaria sottrazione alle ricerche, sia in concreto perchè l'accertamento dei giudici di merito della esistenza di tale requisito nel caso di specie è stata, come rilevato, molto rigoroso.
Inoltre, come rilevato anche dalla corte di merito, la normativa garantisce il diritto di difesa, che, come è noto, può essere modulato in modo diverso dal legislatore, attraverso il meccanismo della rappresentanza del difensore dell'imputato latitante, che, a norma dell'art. 165 cod. proc. pen., comma 3, è rappresentato ad ogni effetto dal difensore.
22. La pretesa inammissibilità o nullità della costituzione della parte civile A.O..
22.1. P.N. - motivo di ricorso n. 1 - e c. e., ca.vi., Gu.Jo.Th., K. J.R., J.A.L. e I.B.L. - motivo di ricorso n. 8 -, oltre a Po.Pi. - motivo n. 1 - hanno dedotto la inammissibilità e la nullità della costituzione della parte civile A.O. per il mancato rispetto delle procedure di autenticazione della firma della parte lesa.
22.2. In punto di fatto è accaduto, come già riportato, che A. O. aveva rilasciato la procura speciale al difensore e che la firma di sottoscrizione era stata autenticata da un notaio egiziano, essendo colà "forzatamente" dimorante la parte civile; trasmesso l'atto al Ministero di giustizia egiziano, un funzionario autenticava la firma del notaio; l'atto poi veniva trasmesso al Ministero degli esteri egiziano, che autenticava la firma del funzionario del ministero di giustizia; infine, trasmesso l'atto al console italiano, questi autenticava il tutto.
22.3. Ebbene nella complessa, e forse sovrabbondante, procedura utilizzata non si ravvisano elementi di inammissibilità della costituzione per mancata autentica della firma della parte civile.
Bisogna premettere che finalità della legislazione in materia, che richiede l'autentica della firma della parte civile che rilasci procura speciale al suo difensore da parte del difensore stesso o da altra persona abilitata, è quella di garantire l'autenticità della firma, fatto che assicura che sia effettivamente la parte lesa, e non altri, a rilasciare la richiesta procura.
Evidentemente quando detta procura venga rilasciata in uno stato estero maggiori sono le formalità per ottenere le garanzie necessarie; è necessario, comunque, fare riferimento alla normativa di diritto internazionale privato e precisamente alla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 12.
Secondo l'interpretazione fornita dalla Suprema Corte (SU, ord. n. 3410 del 13 febbraio 2008, rv 601610) per il disposto della L. n. 218 del 1995, art. 12 la procura alle liti utilizzata in un giudizio che si svolge in Italia, anche se rilasciata all'estero, è disciplinata dalla legge processuale italiana, la quale, tuttavia, nella parte in cui consente la utilizzazione di un atto pubblico o di una scrittura autenticata, rinvia al diritto sostanziale e, quindi, quando si tratti di atto formato all'estero alla lex loci, a condizione che il diritto straniero conosca tali istituti e li disciplini in maniera non contrastante con le linee fondamentali che li caratterizzano nell'ordinamento italiano.
In effetti i ricorrenti non hanno contestato l'applicabilità della norma richiamata, la presenza dei requisiti richiesti per riconoscere validità all'atto ed il fatto che sia sufficiente l'autentica della firma di chi rilasci la procura da parte di un pubblico ufficiale egiziano.
Il problema, sul quale nulla ha osservato la corte di merito, è, allora, costituito dal fatto che è necessario accertare che la persona che ha autenticato la firma di A.O. sia effettivamente un notaio egiziano e, quindi, un pubblico ufficiale del posto.
Dal momento che l'Egitto non ha aderito alla Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961 sulla ed apostille, è necessario fare riferimento alla convenzione tra Italia ed Egitto del 3 dicembre 1977, ratificata con L. 24 ottobre 1980, n. 764, secondo la quale - artt. 8 e 10 -, in consonanza con quanto prescritto dal D.P.R. n. 445 del 2000, art. 33, comma 2, è necessario che la firma del pubblico ufficiale egiziano sia sottoposta a legalizzazione da parte dell'Autorità consolare italiana.
Ebbene, tenuto conto della sequenza procedimentale dinanzi descritta, la normativa richiamata è stata rispettata perchè la firma del notaio egiziano è stata legalizzata dall'Autorità consolare.
Ed, infatti, nessuna norma prescrive che la legalizzazione debba avvenire con la presenza fisica del notaio dinanzi al console, fatto che, comunque, non offrirebbe le dovute garanzie per la limitatezza dei poteri di indagine del console.
Nel caso di specie in effetti è stato il Ministero di giustizia egiziano, in virtù dei poteri di controllo spettantigli, soltanto genericamente contestati dal ricorrente P., a certificare che la firma apposta sulla procura rilasciata da A.O. fosse quella di un notaio egiziano; l'atto con l'attestazione del Ministero della giustizia, trasmesso tramite via diplomatica - Ministero degli esteri - all'Autorità consolare italiana, venne dal Console legalizzato proprio in virtù degli accertamenti che solo l'Autorità egiziana era in grado di svolgere.
Sicura essendo allora la provenienza della procura al difensore da A.O. perchè la firma di quest'ultimo è stata autenticata da un notaio egiziano, come attestato dal Ministero di giustizia, deve concludersi per la infondatezza del motivo di ricorso in esame.
22.4. La pretesa risarcitoria delle parti civili nei confronti di S.L. e Po.Pi..
Conviene, per completezza, trattare in questa sede la pretesa risarcitoria delle parti civili nei confronti degli imputati S. L. e Po.Pi. condannati per il delitto di favoreggiamento personale.
A.O. e G.C. hanno sostenuto di avere diritto al risarcimento perchè titolari di un diritto alla verità ed alla individuazione dei colpevoli.
In primo grado il tribunale aveva riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, mentre il giudice di secondo grado aveva revocato la condanna del S. e del Po. al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, ferma restando, invece, la condanna al risarcimento per le persone condannate per il delitto di cui all'art. 605 cod. pen..
Il motivo di ricorso è infondato.
Secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità chi abbia denunciato la condotta di intralcio alle investigazioni dell'Autorità non può considerarsi persona offesa e non è legittimata, pertanto, a costituirsi parte civile nel procedimento non essendo titolare di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo al regolare andamento della amministrazione della giustizia che costituisce il bene protetto dalla norma incriminatrice (Sez. F, 12 agosto 2003, n. 37812, Ventura e Sez. 5, del 16 settembre 2008, Abate ed altri, n. 43207).
Tale indirizzo, peraltro, trova il suo fondamento nel principio che il danno risarcibile in sede penale deve essere conseguenza immediata e diretta del reato e deve derivare dalla lesione di un diritto soggettivo (Sez. 1, 12 novembre 1999-19 gennaio 2000, n. 652, CED 215293), o, come pure è stato affermato, anche dalla lesione di un interesse legittimo (SU civ. 22 luglio 1999, n. 500).
Ma anche se non si voglia seguire tale indirizzo, come fa la corte di merito, sul presupposto che l'art. 185 cod. pen. stabilisce che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole, e che in astratto non si può negare che anche la condotta del favoreggiatore, che può ritardare o addirittura impedire l'accertamento di un reato, possa provocare danni alla vittima del reato presupposto, va detto che il motivo di ricorso è infondato perchè nel caso di specie la corte di merito ha escluso in fatto che la condotta di S.L. e Po.Pi.
avesse provocato danni alle parti civili.
La corte di merito, infatti, ha rilevato che le condotte contestate a S. e Po. non avevano provocato alcun danno alle parti civili perchè dall'attività di favoreggiamento in favore di altri imputati non era conseguita l'effettiva sottrazione degli stessi alle investigazioni dell'Autorità, la quale in tempo reale aveva potuto monitorare quelle delittuose condotte, grazie alle intercettazioni disposte.
In conclusione, quindi, secondo la corte territoriale nel caso di specie la condotta posta in essere dai due imputati integrava certamente il delitto di cui all'art. 378 cod. pen., trattandosi di reato di pericolo, ravvisabile anche in assenza di danno, mentre non essendo ravvisabile alcun danno per le parti civili perchè in concreto nessun pregiudizio per le indagini sul sequestro di A. O. si era verificato per effetto di tali condotte, nessun risarcimento era dovuto.
Trattasi di valutazione di merito che, per essere sorretta da una motivazione immune da manifeste illogicità, che non è stata nemmeno contestata dalle ricorrenti parti civili, non è censurabile in questa sede di legittimità 23 L'immunità consolare e quella ed funzionale.
23.1. Il problema della immunità consolare riguarda due ricorrenti che svolgevano funzioni consolari in Milano, L.R.S. e D.S.S..
Detta immunità non è stata riconosciuta dai giudici di merito e, quindi, sia il L. - motivo di ricorso n. 3 - che la D.S. - motivo n. 3 - hanno proposto ricorso per cassazione.
Entrambi i ricorrenti hanno poi invocato anche la ed immunità funzionale, ravvisabile, secondo la loro prospettazione, nel caso di specie, trattandosi di individui - organo di uno Stato estero in missione speciale.
I motivi di ricorso sono infondati e vanno, quindi, rigettati.
23.2. L'immunità consolare e la Convenzione di Vienna.
Le immunità per gli agenti e funzionar consolari stranieri operanti in Italia sono regolate dalla "Convenzione sulle relazioni consolari" stipulata a Vienna il 24 aprile 1963 e ratificata dal Presidente della Repubblica in base alla L. 9 agosto 1967, n. 804, art. 1.
L'immunità penale dell'agente consolare straniero, che è più circoscritta di quella diplomatica disciplinata dalla Convenzione di Vienna del 18 aprile 1961 - tre imputati americani addetti all'ambasciata degli Stati Uniti d'America nel presente processo sono stati prosciolti per immunità diplomatica -, è limitata agli atti compiuti nell'esercizio della funzione consolare, come chiarito dalla convenzione stessa e come ribadito dalla Suprema Corte (Sez. 1, 24 marzo-9 luglio 1983, n. 6393).
E' bene precisare che le norme della Convenzione di Vienna, essendo stato il trattato ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge n. 804/67, sono norme dell'ordinamento italiano ed in quanto tali esse vanno interpretate ed applicate dal giudice italiano, non apparendo condivisibile la tesi sostenuta dalla ricorrente D. S., che ha richiamato sul punto anche autorevole dottrina e valutazioni della Commissione per il diritto internazionale dell'ONU, che dette norme non sarebbero interpretabili dai giudici perchè spetterebbe soltanto allo stato di invio stabilire se le attività in concreto esercitate rientrino o meno nelle funzioni consolari.
Se fosse fondata una tale impostazione non vi sarebbe stato alcun bisogno di una particolareggiata indicazione di tali funzioni nell'art. 5 della Convenzione di Vienna, essendo demandato esclusivamente allo stato di invio la individuazione delle funzioni consolari.
E' vero, invece, che dopo la seconda guerra mondiale, come già notato, da più parti incominciò ad essere messo in discussione il ed principio della bandiera, che escludeva, in linea di massima, la giurisdizione dello stato di residenza per militari, diplomatici e soggetti inviati in missioni speciali.
Il primo risultato significativo di tale processo culturale fu, come si è già notato, l'approvazione del Trattato di Londra del 1951 sulla competenza per i reati commessi da militari appartenenti alla NATO in territorio di uno degli stati della alleanza.
Altro esempio di tale indirizzo culturale è proprio la Convenzione sulle immunità consolari perchè con la stessa si continua a garantire la immunità degli agenti consolari proprio al fine di garantire la libertà nell'espletamento delle loro funzioni, che, in quanto riconducibili allo stato di invio, sono funzioni sovrane, ma si pone un limite preciso a tali immunità anche per il dovuto rispetto alla sovranità dello stato di residenza ed al principio della territorialità della legge penale.
Il punto di compromesso tra i due principi è stato rinvenuto nel fatto che l'immunità viene riconosciuta ai consoli quando il reato venga commesso nell'esercizio delle funzioni consolari, essendo sottoposte alla giurisdizione dello stato di residenza tutte le condotte non riconducibili a tali funzioni.
Orbene nel nostro sistema costituzionale nessuna Autorità, salvo il Parlamento in sede di interpretazione autentica delle norme, può imporre ad un giudice la interpretazione di una legge; sarà, quindi, l'Autorità giudiziaria a stabilire nel caso concreto ed in base alla normativa vigente se l'attività in discussione rientri o meno nell'esercizio delle funzioni consolari; quando, invece, sorga contrasto nella interpretazione del trattato tra le due rappresentanze politiche degli Stati interessati, queste potranno modificare le norme della Convenzione.
23.3. La inviolabilità personale Gli articoli della Convenzione che disciplinano la materia in discussione sono il 43, il 41 ed il 5.
L'art. 41 prevede una immunità personale, ovvero la inviolabilità personale dei funzionari consolari.
Esso stabilisce, al primo comma, che i funzionari consolari possono essere posti "in stato di arresto o di detenzione preventiva solo in caso di reati gravi ed a seguito di una decisione dell'Autorità giudiziaria competente".
Appare del tutto chiaro, perchè detto esplicitamente dalla norma, che la previsione si riferisce esclusivamente alla carcerazione preventiva, oggi, più correttamente, alla applicazione delle misure cautelari detentive; si vuole, cioè, che i funzionari consolari, in considerazione del loro status di rappresentanti di uno Stato estero, possano essere privati della libertà prima della pronuncia di una sentenza di condanna definitiva soltanto in ipotesi di imputazioni gravi.
Che questa sia l'interpretazione corretta è confermato dal secondo comma del citato art. 41 della Convenzione, secondo il quale, ad eccezione di quanto disposto dal primo comma, i funzionari consolari non possono essere privati della libertà personale se non in esecuzione di una sentenza definitiva.
E' poi la legge di ratifica della Convenzione n. 804 del 1967, art. 3 che, ai fini della esecuzione dell'art. 41, paragrafo (comma) 1 della convenzione, stabilisce che deve intendersi per "crime grave" ogni delitto non colposo punibile con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, o con pena più grave.
Da quanto detto discende che ai sensi del citato art. 41 della Convenzione era consentito ai giudici italiani emettere ordinanza di custodia cautelare nei confronti di L.R.S. e D.S. S. perchè il tipo di imputazione ascritta ai due ricorrenti consentiva la condizione di "detenzione preventiva", essendo il contestato sequestro di persona ex art. 605 cod. pen. un "crime grave" ai sensi della richiamata normativa.
23.4. La immunità di giurisdizione.
Più pertinente per la soluzione del caso in discussione è, invece, il richiamo all'art. 43 della Convenzione di Vienna perchè tale norma disciplina proprio la immunità di giurisdizione degli agenti consolari.
Il comma 1, art. 41, infatti, statuisce che "i funzionari consolari........non possono essere sottoposti a procedimenti giudiziari dalle Autorità giudiziarie ......dello stato di residenza per gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni consolari".
L'interpretazione della norma non presenta particolari problemi, nel senso che appare del tutto chiaro che si è voluta limitare l'immunità degli agenti consolari agli "atti compiuti nell'esercizio delle funzioni consolari".
E' sulla definizione delle funzioni consolari che si sono soffermati i ricorrenti, sostenendo che la operazione posta, in ipotesi, in essere in danno di A.O. era stata compiuta non solo nell'interesse degli Stati Uniti d'America, che ritenevano legittime ed utili, anzi necessarie, le pratiche di extraordinary renditions nella strategia contro il terrorismo di matrice islamica, ma della intera umanità; essa poteva, perciò, rientrare nel concetto di funzione consolare.
La tesi è infondata alla luce dell'art. 5 della più volte citata Convenzione che indica in modo chiaro quali siano le funzioni consolari.
I ricorrenti, fermando la loro analisi al comma 1, citato art. 5, hanno sostenuto che le funzioni consolari consistessero nel "tutelare ....gli interessi dello Stato inviante e dei suoi cittadini.....nei limiti stabiliti dal diritto internazionale"; quindi l'obiettivo del console consisterebbe nel fare gli interessi dello stato inviante compiendo qualsiasi azione utile allo scopo, comprese azioni ritenute illegali dallo stato di residenza, purchè rientranti nei limiti stabiliti dal diritto internazionale; ritenevano, infine, i ricorrenti che le operazioni di extraordinary rendintions, anche se ritenute illegali in Italia, non contrastavano con nessuna norma di diritto internazionale perchè non potevano ritenersi violazioni del diritto umanitario.
La interpretazione del citato art. 5 prospettata dai ricorrenti è errata.
Ed, infatti, il primo comma afferma in linea generale una cosa ovvia, ovvero che gli agenti consolari debbono agire nell'interesse dello stato di invio e dei suoi cittadini, nel senso che, essendo rappresentanti di quello stato, non possono e non debbono compiere nessuna azione che possa arrecare danno allo stesso.
Si tratta di una norma generale che sta a significare che gli agenti consolari debbono perseguire l'interesse dello stato di invio in ogni attività loro demandata e che è specificata nei commi successivi dell'art. 5.
Di certo la disposizione non è interpretabile nel senso che è consentita ai consoli qualsiasi azione purchè nell'interesse dello stato di invio.
Ed, infatti, i successivi commi dell'art. 5 indicano con precisione quali siano le funzioni consolari che vanno, solo per indicarne alcune, dal favorire lo sviluppo delle relazioni commerciali, economiche, culturali e scientifiche tra lo stato di invio e quello di residenza, alla assunzione di informazioni sulle condizioni commerciali, al rilascio di documenti di viaggio e passaporti, alla prestazione di assistenza ai cittadini dello stato di invio, a svolgere funzioni di notaio ecc. ecc..
Vanno posti in evidenza due aspetti: il primo è che si tratta di funzioni tipicamente amministrative dirette, in via principale, a favorire le attività commerciali del paese rappresentato e a prestare aiuto ai cittadini dello stesso che si trovino in difficoltà nel paese di soggiorno; il secondo aspetto degno di nota è che per molte attività - vedi, ad esempio, quelle indicate dalle lett. f), g), h), i), j), k), l) dell'art. 5 - vige la norma specifica che le varie funzioni indicate debbono svolgersi nel rispetto "delle leggi e dei regolamenti dello stato di residenza".
Inoltre la lett. m), art. 5 della Convenzione di Vienna consente ai consoli di esercitare ogni altra funzione demandata ad un ufficio consolare dallo stato di invio "che non sia vietata dalle leggi e regolamenti dello stato di residenza, o alla quale lo stato di residenza non si opponga.......".
Si tratta di una norma ed di chiusura che, con molta chiarezza, precisa che gli interessi del Paese di invio possono essere tutelati dal console esercitando le funzioni indicate dall'art. 5 della Convenzione entro i limiti consentiti non solo dalle leggi, ma anche dai regolamenti, dello stato di residenza, a meno che non vi sia una autorizzazione di quest'ultimo al compimento anche di azioni illegali, ovvero contra legem, sul proprio territorio.
23.5. Da quanto detto emerge con tutta evidenza che il rapimento di una persona per condurla, per di più, in un luogo ove sia possibile sottoporla ad interrogatorio con metodi brutali - tortura - non rientra nell'esercizio delle funzioni consolari ed è contrario alle leggi italiane, cosicchè nessuna immunità consolare può essere riconosciuta ai ricorrenti L. e D.S..
La verità è che L. e D.S. erano agenti consolari ed al tempo stesso funzionari del servizio di informazioni americano - CIA - e nella operazione A.O. hanno agito esclusivamente quali agenti CIA, eventualmente avvalendosi anche delle relazioni che avevano instaurato come agenti consolari.
Non è poi vero, almeno per quel che emerge dagli atti e, principalmente, dalle due sentenze di merito, che l'operazione A. O. fosse stata autorizzata dal Governo italiano, come sostenuto genericamente da uno dei ricorrenti, non solo perchè il rapimento non sarebbe mai stato autorizzabile per la legge italiana, ma anche perchè sia il Presidente del Consiglio dei Ministri in una nota ufficiale inviata all'Autorità giudiziaria, sia l'allora direttore del SISMI avevano escluso ogni coinvolgimento delle istituzioni da loro rappresentate nella predetta operazione; siffatta affermazione fino ad oggi non ha ricevuto smentite.
Le conclusioni raggiunte rendono, ovviamente, superfluo stabilire se il rapimento di A.O. per gli scopi dinanzi indicati costituisca o meno violazione del diritto internazionale, anche se va detto che la posizione negativa della ricorrente D.S. suscita non poche perplessità, tenuto conto della evoluzione del diritto umanitario e di quanto stabilito dall'art. 7 - Crimini contro l'umanità - dello Statuto della Corte Penale Internazionale.
E' opportuno, infine, ricordare che la D.S. al momento del rapimento di A.O. esercitava le funzioni consolari perchè addetta al consolato degli Stati Uniti d'America di Milano, non potendosi riconoscere nessun rilievo al fatto che in precedenza aveva svolto funzioni diplomatiche presso l'ambasciata di Roma.
23.6. Quanto alla perquisizione della casa di Penango va detto che non si tratta di un locale consolare adibito ad ufficio, che ai sensi dell'art. 31 della Convenzione godrebbe della inviolabilità, ma della dimora privata di L.R. che poteva certamente essere perquisita; gli oggetti ivi rinvenuti non costituivano archivi o documenti consolari, che a norma dell'art. 33 della Convenzione sono inviolabili, ma oggetti ed appunti personali del L. certamente sequestrabili.
23.7. La ed immunità funzionale.
Ma, hanno sostenuto i ricorrenti ed in particolare D.S. S., si deve riconoscere che le norme sulla immunità consolare non sono altro che attuazione particolare di una norma consuetudinaria generale per la quale par in parem non habet iurisdictionem, cosicchè l'individuo - organo di uno stato sovrano non potrebbe essere soggetto alla giurisdizione di altro stato per gli atti eseguiti iure imperii; quindi gli agenti della CIA, che avrebbero, in ipotesi, partecipato al rapimento di A.O., sarebbero soggetti in missione speciale e le loro condotte, in base al principio dinanzi indicato, sarebbero immuni dalla giurisdizione dello stato ospitante; si tratterebbe di una immunità funzionale.
La tesi non può essere accolta perchè, come rilevato anche da dottrina autorevole, non è ravvisabile nel diritto internazionale un principio consuetudinario di tal genere; esiste un principio di immunità dalla giurisdizione civile degli stati sovrani, principio, peraltro, codificato in numerosi trattati, ma da tale immunità non può farsi derivare una immunità dalla giurisdizione penale, che, ovviamente, non può riguardare gli stati, ma i singoli individui.
Ed in verità mai prima di una abbastanza recente pronuncia della Suprema Corte (Sez. 1, 19 giugno-24 luglio 2008, Lozano, n. 31171), come è stato autorevolmente rilevato, era stata messa in discussione dalla giurisprudenza italiana la libertà dello Stato di esercitare la giurisdizione penale nei confronti di organi statali stranieri, in assenza di norme specifiche poste a loro tutela, come quelle sulle immunità degli agenti diplomatici e consolari (ai quali sono equiparate per diritto consuetudinario internazionale le alte cariche degli Stati - capo di Stato, capo di governo e ministro degli affari esteri -; vedi Corte internazionale di giustizia, 14 febbraio 2002, Repubblica democratica del Congo c. Belgio), o sui riparti di giurisdizione tra stato d'invio e di residenza per i militari di stanza in territorio straniero.
Il problema, quindi, consiste nel verificare se effettivamente esiste nel diritto internazionale una norma consuetudinaria che garantisca l'immunità anche penale all'individuo-organo di uno stato sovrano, anche quando non si tratti di agenti diplomatici e/o consolari e di alte cariche dello Stato.
Sul punto la dottrina è divisa perchè accanto ad Autori che riconoscono l'esistenza di una norma consuetudinaria di tal genere, ve ne sono altri che ne riconoscono l'esistenza soltanto per le attività autorizzate dallo stato straniero sul cui territorio vengono poste in essere ed altri ancora che hanno sostenuto che il beneficio della immunità è riconosciuto da norme specifiche soltanto ad alcune categorie di organi nell'esercizio delle funzioni tipiche del proprio ufficio.
Questa Corte ritiene che tale ultima interpretazione sia quella più corretta perchè tiene conto della evoluzione dei rapporti internazionali di cui si è già detto e di cui sono valido esempio proprio la Convenzione Nato e la Convenzione di Vienna sulle immunità consolari.
Già la brevemente illustrata disarmonia della dottrina fa comprendere che è ben difficile parlare di norma consuetudinaria che può intravedersi soltanto se sia riscontrabile una prassi uniforme e prolungata nel tempo, che nel caso di specie non è affatto indiscussa.
Ebbene anche l'esame della prassi giurisprudenziale conforta la conclusione alla quale si è pervenuti perchè dal puntuale esame della giurisprudenza effettuata dalla citata sentenza Lozano in effetti emergono soltanto due soli precedenti in materia penale, il lontano caso Me Leod del 1847, concernente la distruzione del vapore Caroline che portava aiuti agli insorti canadesi, ed il più recente Gibuti contro Francia nel quale, però, la Corte internazionale di giustizia dell'Aja non accolse le richieste di Gibuti.
In Italia l'immunità penale dell'organo straniero è stata riconosciuta soltanto in casi riconducibili a specifici accordi aventi rango costituzionale come i Patti lateranensi; si intende fare riferimento al noto caso Marcinkus (Sez. 5, 17 luglio 1987, Marcinkus, CED n. 180349).
Orbene in tale situazione ritenere la esistenza di una norma consuetudinaria appare non corretto perchè non sussiste una giurisprudenza consolidata, non sono ravvisabili continue e concordanti dichiarazioni ufficiali degli Stati e non vi è univoca interpretazione dottrinale.
D'altra parte proprio per l'incertezza che caratterizza questo delicato aspetto dei rapporti internazionali gli stati - tanto per fare un esempio - normalmente regolano l'esercizio della propria giurisdizione sui militari all'estero mediante SOFA (Status of Forces Agreement).
Si può concludere allora che il trattamento applicato in materia si presenta con tali discontinuità da non consentire la ricognizione di una norma di portata generale; ed, infatti, la sottrazione alla giurisdizione straniera per gli organi dello Stato in ipotesi inviante è prevista in specifici trattati, mentre in assenza di essi l'immunità funzionale di norma non viene riconosciuta dagli organi giurisdizionali nazionali.
Anche sotto il profilo considerato, dunque, il motivo di ricorso numero tre proposto dai ricorrenti L.R. e D.S. S. è infondato.
Le conclusioni raggiunte rendono ovviamente superfluo esaminare in modo approfondito il problema se il rapimento di A.O. costituisca o meno violazione del diritto umanitario, tale che secondo dottrina e giurisprudenza costituirebbe ostacolo assoluto al riconoscimento di una immunità funzionale.
Sarà sufficiente osservare che le pur articolate osservazioni della D.S. non convincono perchè esse sono, in effetti, fondate sulla considerazione che il sequestro di persona - quando non sia reiterato - di per se solo considerato non costituisca violazione del diritto umanitario.
Non considera, però, la ricorrente che, come si desume dalle due sentenze di merito, il rapimento di A.O. fu realizzato per trasportare il prigioniero in uno stato - l'Egitto - ove era ammesso l'interrogatorio sotto tortura, torture alle quali risulta che venne effettivamente sottoposto A.O., come risulta dal suo memoriale richiamato dai giudici dei primi due gradi.
Ebbene è proprio la finalizzazione del sequestro, che costituisce, poi, uno degli obiettivi delle extraordinary renditions, che rende la condotta posta in essere dagli imputati contraria al diritto umanitario, posto che la tortura è bandita non solo dalle leggi Europee (Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali - CEDU, Roma, 1950), ma anche dalle convenzioni delle Nazioni Unite (Patto delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici - New York 1966 e Convenzione contro la tortura e gli altri trattamenti o punizioni crudeli o degradanti - New York 1984 -; si omette il riferimento alla Convenzione per la protezione di tutte le persone contro le sparizioni forzate, Parigi 2007, perchè approvata dopo la consumazione del delitto e, quindi, non applicabile per il principio della irretroattività dei trattati).
24 I. segreto di Stato.
24.1. Premessa.
I problemi relativi alla opposizione/apposizione/conferma del segreto di Stato sono stati affrontati in entrambi i gradi di giudizio ed hanno costituito oggetto di cinque conflitti di attribuzione sollevati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dagli Uffici giudiziari milanesi - Procura della Repubblica e Tribunale - e risolti dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 106 del 2009.
Molti ricorrenti, come puntualmente riportato in narrativa, hanno sottoposto al vaglio di questa Corte questioni concernenti l'estensione del segreto secondo le statuizioni della Corte Costituzionale e delicati problemi interpretativi dell'art. 202 cod. proc. pen. e della L. n. 124 del 2007, applicabile agli imputati per gli aspetti procedurali e per quelli sostanziali più favorevoli.
In particolare hanno proposto ricorso avverso la decisione dei giudici di merito di prosciogliere ai sensi dell'art. 202 c.p.p., comma 3. P.N., M.M., C.G., D.T.R. e D.G.L., direttore del SISMI il primo e agenti con varie mansioni e responsabilità gli altri all'epoca del rapimento di A.O., il Procuratore Generale presso la corte di appello di Milano e le pari civili A.O. e G. C., che hanno chiesto l'affermazione di responsabilità dei cinque uomini del servizio di sicurezza, prospettando una interpretazione di quanto stabilito in materia dalla Corte Costituzionale diversa da quella ritenuta dai giudici di merito, con conseguente diversa estensione dell'area del segreto, e denunciando un sostanziale rifiuto dei giudici di merito di valutazione del materiale probatorio, coperto, secondo quanto ritenuto dalla corte territoriale, da un sipario nero per effetto della decisione della Corte costituzionale sui conflitti di attribuzione.
Anche i cinque agenti del SISMI indicati hanno proposto ricorso avverso tale decisione, ed hanno replicato, inoltre, agli argomenti del procuratore generale e delle parti civili, sostenendo, in estrema sintesi, che erroneamente i giudici di merito non li avevano assolti con formula piena perchè, depurato di quanto coperto da segreto, dal materiale probatorio residuo non emergevano elementi a loro carico.
Inoltre i ricorrenti uomini del SISMI ponevano in evidenza che, essendo per legge obbligati al segreto, non avevano avuto modo di difendersi perchè proprio dal materiale secretato sarebbe emersa la prova della loro estraneità al sequestro di A.O..
Anche S.L. e Po.Pi., condannati per il delitto di favoreggiamento, denunciavano, oltre a scorrettezze procedurali del tribunale a seguito della loro opposizione del segreto, la impossibilità di adeguatamente difendersi perchè costretti dalla legge a mantenere il segreto.
Infine anche molti ricorrenti americani - Ro., c., ca., Gu., K., J., I. e D. S. - ponevano problemi concernenti il segreto principalmente sotto il profilo che l'opposizione e conferma del segreto su numerosi elementi di prova aveva impedito l'accertamento della partecipazione di agenti del SISMI alla operazione, partecipazione di un organo dello Stato italiano che avrebbe indotto gli agenti della CIA a ritenere legittima anche in Italia l'operata azione di contrasto al terrorismo di matrice islamica.
24.2. La disciplina del segreto.
La disciplina sul segreto di Stato mira a tutelare l'interesse dello Stato - comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza ed alla sua stessa sopravvivenza (così Corte Costituzionale nn. 82/1976, 86/1977, 110/1998 e 106/2009), come precisato dalla L. n. 124 del 2007, art. 39, comma 1, ("Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto"), che ha ripreso concetti già fissati dalla L. 24 ottobre 1977, n. 801 vigente all'epoca dei fatti ed oggi abrogata (della L. 3 agosto 2007, n. 124, art. 44).
Conseguentemente sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività......la cui diffusione sia idonea a recare pregiudizio agli interessi indicati.
Si tratta di interessi che trovano il loro fondamento in norme costituzionali, quali gli artt. 52, 5 ed 1 Cost. (sentenza Corte Costituzionale n. 86 del 1977).
Naturalmente sorge il problema del rapporto con altri principi costituzionali e, per quel che qui interessa, con quelli che regolano la funzione giurisdizionale; si tratta, quindi, di trovare un equilibrato bilanciamento di principi e valori di rango costituzionale, ricordando che la disciplina del segreto mira a tutelare da attacchi interni ed esterni l'integrità dello Stato, di cui quella giurisdizionale è una delle funzioni.
E' la citata L. n. 124 del 2007, ed ancor prima la n. 801 del 77, che ha operato siffatto bilanciamento affidando alla responsabilità politica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, con successivo controllo del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, la decisione di secretare atti, documenti, fatti e notizie, attraverso una complessa procedura di opposizione/apposizione/conferma del segreto ed escludendo che possano essere oggetto di segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell'ordine costituzionale o a fatti costituenti delitti di cui agli artt. 285, 416 bis, 416 ter e 422 cod. pen. (L. n. 124 del 2007, art. 39, comma 11).
Proprio la importanza degli interessi tutelati ha indotto, inoltre, il legislatore ad imporre ai pubblici ufficiali depositar di segreti il divieto di riferire riguardo a fatti coperti da segreto (L. n. 124 del 2007, art. 41, comma 1) e l'obbligo di astenersi dal deporre (art. 202 c.p.p., comma 1).
Sempre nell'ottica di un bilanciamento di fondamentali principi costituzionali, il legislatore ha chiarito che non può essere precluso all'Autorità giudiziaria di procedere all'accertamento dei fatti costituenti reato, ma possono essere inibite alla stessa l'acquisizione e l'utilizzazione di notizie coperte da segreto (art. 202 cod. proc. pen., commi 5 e 6).
Insomma l'Autorità giudiziaria può e deve, in virtù del principio di obbligatorietà dell'azione penale, procedere ed indagare per tutti i fatti costituenti reato, ma non può utilizzare ai fini dell'accertamento del reato e delle relative responsabilità fonti di prova che siano coperte da segreto.
24.3. Il conflitto di attribuzione.
Naturalmente la delicatezza ed importanza dei principi in gioco e la difficoltà di delimitare nei singoli casi concreti le competenze dell'Autorità politica e di quella giurisdizionale fa sì che possano sorgere conflitti di attribuzione, che saranno risolti dalla Corte Costituzionale, alla quale non è opponibile alcun segreto.
Ed è esattamente ciò che è accaduto nel caso di specie perchè, come si è già detto, ben cinque conflitti sono insorti tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri e vari Uffici giurisdizionali milanesi - Procura della Repubblica, Ufficio GIP/GUP e Tribunale monocratico -, conflitti risolti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 106 del 2009.
Va detto che nel caso di specie si sono sviluppate anomale dinamiche non irrilevanti per il lineare evolversi della vicenda processuale;
gli ufficiali ed agenti del servizio di sicurezza non hanno opposto immediatamente il segreto di Stato all'Autorità giudiziaria nella fase delle indagini preliminari, ma soltanto in un momento successivo, ovvero nella fase della istruttoria dibattimentale; anche alla perquisizione in una sede del SISMI, ed al successivo sequestro di documenti, gli ufficiali presenti non opposero alcun segreto, salvo ad inviare successivamente all'Autorità giudiziaria copia degli stessi documenti sequestrati con parti omissate perchè coperte da segreto ed a richiedere la restituzione di quelli in precedenza sequestrati.
Ugualmente è a dirsi per gli interrogatori di alcuni indagati, i quali nella fase delle indagini preliminari rilasciarono dichiarazioni, in alcuni casi sostanzialmente ammettendo le loro responsabilità, come è lecito desumere dalle motivazioni delle due sentenze di merito, mentre opposero il segreto di Stato nella fase della istruttoria dibattimentale.
Comportamento non facilmente spiegabile, dal momento che gli agenti del servizio segreto erano perfettamente consapevoli della natura e qualità dei documenti sequestrati e delle notizie acquisite dall'Autorità giudiziaria.
Anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel corso del processo ha elaborato varie note di apposizione o di conferma del segreto che in parte hanno mostrato di volere ampliare l'estensione dell'area coperta da segreto, come se non fossero chiari sin dalla fase iniziale l'oggetto del processo, la natura delle indagini disposte e le fonti di prova da acquisire ed in altra parte hanno continuato a ribadire gli originari limiti dello sbarramento opposto.
Tali contraddizioni e la tardiva opposizione ed apposizione del segreto hanno creato non pochi problemi, alcuni di non semplice soluzione.
Infine bisogna dire che anche la Corte Costituzionale, nel complesso e delicato lavoro di definizione, nel caso concreto, dei limiti imposti alla attività giudiziaria dalla apposizione del segreto e, quindi, della estensione dello stesso, ha, con la sentenza n. 106 del 2009, che ha risolto i conflitti di attribuzione, lasciato alcuni non secondari problemi in parte non definitivamente risolti.
24.4. Orbene per esaminare e valutare i motivi di ricorso concernenti i problemi relativi al segreto di stato è proprio dai confini delineati dalla Corte Costituzionale che è necessario partire.
La Corte Costituzionale, con la citata sentenza, con la quale ha annullato alcuni atti istruttori - perquisizione/sequestro di documenti presso una delle sedi del SISMI, incidente probatorio e ammissione di circa venti testimoni del Pubblico Ministero -, ha sostanzialmente stabilito che nel caso di specie il segreto di Stato non ha mai avuto ad oggetto il reato di sequestro in sè, pienamente accertabile dall'Autorità giudiziaria competente nei modi ordinari, bensì, da un lato, i rapporti tra il servizio segreto italiano e quelli stranieri e, dall'altro, gli assetti organizzativi ed operativi del SISMI, con particolare riferimento alle direttive e agli ordini che sarebbero stati impartiti dal suo Direttore, agli appartenenti al medesimo organismo, pur se tali rapporti, direttive ed ordini fossero in qualche modo collegati al fatto di reato stesso, ovvero al rapimento di A.O..
La Corte Costituzionale non ha mancato di chiarire che, una volta fissati i principi in materia di segreto, definiti i confini delle competenze della Presidenza del Consiglio e dell'Autorità giudiziaria, annullati alcuni atti istruttori, o meglio stabilito che gli atti indicati nel capoverso precedente non potevano essere posti a fondamento del decreto che dispone il giudizio, sarebbe spettato al giudice ordinario competente valutare le conseguenze sul piano processuale delle decisioni assunte dal giudice delle leggi.
Detto in altre parole il giudice deve depurare il materiale probatorio di tutte le fonti di prova inutilizzabili per la apposizione del segreto, tenendo presente che in un interrogatorio e/o in un esame vi possono essere parti coperte da segreto e parti pienamente utilizzabili, e compiere una attenta valutazione delle fonti di prova residue; se le prove residue non sono sufficienti per una soluzione di merito e le prove inutilizzabili siano essenziali - sul problema della essenzialità si tornerà più avanti - per una tale soluzione il giudice pronuncerà sentenza di proscioglimento per improcedibilità dell'azione ai sensi dell'art. 202 cod. proc. pen., comma 3.
I giudici del merito avrebbero, in base ai principi dettati dalla Corte Costituzionale ed a quelli emergenti dalla legge che regola il segreto di Stato, oltre che ai criteri di giudizio indicati dal codice di procedura penale, dovuto delimitare con precisione l'area coperta dal segreto e compiere le valutazioni del materiale probatorio dinanzi indicate, non potendo, a seguito di una disamina sommaria, come sostenuto dal procuratore generale ricorrente, concludere che sul materiale probatorio a carico degli agenti del SISMI era calato un "sipario nero" che aveva creato una zona di indecidibilità, impedendo l'accertamento delle responsabilità penali degli imputati e imponendo il proscioglimento degli stessi ai sensi dell'art. 202 cod. proc. pen., citato comma 3.
24.5. La fondatezza dei ricorsi del Procuratore Generale e delle parti civili.
Tanto premesso, deve dirsi che sono fondati i motivi di ricorso del procuratore generale e delle parti civili, limitatamente per queste ultime ai motivi concernenti il proscioglimento dei cinque agenti del SISMI italiani.
I giudici del merito avrebbero dovuto in primo luogo delimitare con precisione l'ambito del segreto, tenendo conto degli atti di apposizione dello stesso da parte della Presidenza del Consiglio e dei principi generali, già in precedenza richiamati, enunciati dalla Corte Costituzionale, ricordando che quest'ultima aveva precisato, richiamando precedenti decisioni, che il suo giudizio era limitato a verificare la sussistenza o insussistenza dei presupposti del segreto di Stato opposto e confermato, ma non già ad esprimere una valutazione di merito sulle ragioni del segreto, valutabili esclusivamente in sede politica dal Parlamento.
Una lettura complessiva della disciplina del segreto, invero, rende evidente che l'intento del legislatore è quello di tutelare il segreto di atti, fatti, documenti e notizie, la cui conoscenza e divulgazione potrebbero mettere a rischio il bene primario della integrità del Paese, o la funzionalità delle istituzioni dello Stato o compromettere relazioni internazionali, con pericoli per le politiche estere, economiche e militari del Paese.
Del resto la Corte Costituzionale nelle sentenze che si sono occupate della questione, e in particolare con la decisione che ha risolto i conflitti di attribuzione nel presente processo, ha sempre ribadito che sono esattamente quelle indicate le finalità della disciplina del segreto (vedi anche Corte Costituzionale 23 febbraio 2012 n. 40, che ha, tra l'altro, ulteriormente affrontato la tematica del rapporto tra diritto primario dell'imputato alla sua difesa e sicurezza dello Stato in un procedimento penale che vedeva imputati P.N. e Po.Pi., questione della quale meglio si dirà in seguito).
Di sicuro la finalità della legge e della apposizione o conferma del segreto non è quella di garantire la immunità penale per eventuali atti illegali compiuti dagli agenti dei servizi di sicurezza ed informazione, apparendo quest'ultima più una conseguenza, in molti casi inevitabile, della apposizione del segreto su alcune fonti di prova che la finalità perseguita dal legislatore; sotto tale profilo del tutto erronea appare l'affermazione del tribunale, sostanzialmente avallata dal giudice di appello, secondo cui le modalità di apposizione del segreto avrebbero garantito agli agenti del SISMI "di godere di una immunità di tipo assoluto a livello processuale e sostanziale".
Quanto detto in linea generale trova conferma, tra l'altro, nella disciplina delle ed garanzie funzionali previste per il personale dei servizi di informazione per la sicurezza dall'art. 17 - "Ambito di applicazione delle garanzie funzionali" - della L. n. 124 del 2007, articolo che ha previsto una esimente speciale per detto personale per le condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali dei servizi.
Ora, a parte il fatto che siffatta esimente non può trovare applicazione quando la condotta posta in essere dall'agente dei servizi configuri, come nel caso di specie, un delitto che metta in pericolo o leda la libertà personale e/o la integrità fisica o quando non sia opponibile il segreto di Stato ai sensi del comma 11 dell'art. 39 della legge predetta e che, pertanto, non può trovare applicazione nel caso di specie, ciò che importa mettere in evidenza è che è possibile per gli agenti dei servizi godere della non punibilità soltanto in presenza di due presupposti, ovvero la esplicita autorizzazione della condotta illegale e la indispensabilità della stessa per conseguire le finalità istituzionali.
Orbene nel caso di specie non è possibile fare ricorso alla garanzia prevista dalla L. n. 124 del 2007, art. 17 per il tipo di condotta attribuita agli imputati e, quindi, correttamente sul fatto reato non è stato apposto alcun segreto, essendo libera l'Autorità giudiziaria di indagare sul fatto e di processare gli imputati, anche se appartenenti ai servizi di informazione.
Il limite alla attività della magistratura è dato dalla apposizione del segreto su alcune fonti di prova, che rende inutilizzabili le stesse.
Ma su cosa in concreto è stato apposto il segreto nel caso di specie? Si è già detto che da una attenta lettura della direttiva del 30 luglio 1985, delle note della Presidenza del Consiglio in data 11 novembre 2005, 26 luglio 2006, 15 novembre 2008, nonchè della direttiva 6 ottobre 2008, si evince che il segreto è stato sostanzialmente apposto, come del resto ha confermato la Corte costituzionale, su documenti e notizie che riguardino i rapporti tra i servizi italiani e quelli stranieri - fonti di prova che hanno "tratto" ai rapporti fra servizi italiani e stranieri, hanno chiarito le due note del 15 novembre 2008 - e sugli interna corporis del servizio, ovvero sulla organizzazione dello stesso e sulle direttive impartite dal direttore dei servizi, anche se relative alla vicenda delle rendintions e del sequestro di A.O..
Significativamente la Corte Costituzionale nell'accogliere il ricorso della Presidenza del Consiglio dei Ministri in ordine alla assunzione dei teste Mu. ha precisato che la domanda posta al testimone, che aveva opposto il segreto, lungi dal riguardare esclusivamente il coinvolgimento del M. nel presunto sequestro, verteva specificamente su ciò che l'imputato avrebbe riferito al teste sugli accertamenti chiesti dagli americani nelle riunioni di Bologna; da ciò si deduce che il Mu. avrebbe potuto regolarmente testimoniare su quanto riferitogli dal M. in ordine alle sue personali responsabilità, mentre si sarebbe dovuto astenere da quanto richiesto dagli americani perchè quest'ultimo aspetto concerneva i rapporti tra i servizi.
Si tratta di un passaggio importante della sentenza della Corte Costituzionale perchè lascia intendere con chiarezza i limiti del segreto, potendo il giudice acquisire le prove delle responsabilità individuali degli agenti, dovendosi astenere dall'acquisire soltanto quelle inerenti a rapporti internazionali tra servizi di informazione.
Quindi il segreto concerneva elementi dai quali si potesse desumere che il rapimento di A.O. fosse una operazione congiunta CIA/SISMI - segreto sui rapporti internazionali dei servizi -, ma non fonti di prova a carico di singoli agenti italiani.
Da tutto quanto detto in precedenza si desume, infatti, che il segreto non può essere apposto, contrariamente a quanto sostenuto dalla corte di merito, sull'operato di singoli funzionari che abbiano agito al di fuori delle proprie funzioni.
Il segreto può coprire, dunque, soltanto operazioni del servizio di informazione debitamente disposte e/o approvate dal direttore dello stesso e che rientri nelle finalità istituzionali del servizio stesso, ma non la condotta illegale posta in essere da singoli agenti del servizio che abbiano partecipato a titolo individuale ad una operazione della CIA. Nel caso di specie non si è trattato di una operazione del servizio di informazione perchè il Presidente del Consiglio con la nota in data 11 novembre 2005 ha proclamato l'assoluta estraneità sotto ogni profilo del Governo e del SISMI a qualsivoglia risvolto riconducibile al sequestro di N.O.M.H., alias A.O..
La estraneità del Governo italiano e del SISMI veniva poi ribadita dal direttore P. dinanzi al Parlamento Europeo.
Non vi è alcun elemento per dubitare della veridicità di tali affermazioni e dichiarazioni, tanto più che esse sono contenute in un documento ufficiale inviato alla Autorità giudiziaria; del resto mai il SISMI avrebbe potuto partecipare ad una azione illegale che era del tutto estranea alle finalità istituzionali del SISMI, non potendosi far rientrare nelle predette finalità condotte dirette a privare della libertà personale, senza alcun provvedimento dell'Autorità giudiziaria, persone allo scopo, per di più, di trasferirle in luoghi ove poterle interrogare sottoponendole a torture.
Si deve, allora, necessariamente concludere che l'eventuale partecipazione di agenti del SISMI al rapimento di A.O. avvenne a titolo personale, cosa che non deve apparire strana, dal momento che anche un maresciallo dei ROS, Pi.Lu., partecipò, come ebbe a riferire lui stesso, alla operazione perchè coinvolto da L.R. con la promessa di un aiuto autorevole per potere divenire agente dei servizi di informazione.
Se tutto quanto detto è vero si deve concludere che sulle fonti di prova afferenti ad eventuali singole e specifiche condotte criminose poste in essere da agenti del SISMI, anche in accordo con appartenenti a servizi stranieri, ma al di fuori dei doveri funzionali ed in assenza di autorizzazione da parte dei vertici del SISMI non è stato apposto alcun segreto, che, invece, riguardava i rapporti tra servizi italiani e stranieri e gli scambi di informazione e gli atti di reciproca assistenza posti in essere in relazione a singole e specifiche operazioni, dovendosi intendere per operazioni le azioni legittimamente approvate dai vertici del SISMI. 24.6. La apposizione tardiva del segreto.
Il procuratore generale ricorrente, ma più specificamente ed ampiamente le parti civili, hanno anche posto il problema della ed apposizione tardiva del segreto.
Il procuratore generale di udienza ha eccepito la incostituzionalità della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41, avendo la Corte Costituzionale con la sentenza che ha risolto i conflitti di attribuzione ritenuto possibile la apposizione tardiva del segreto.
La difesa di P.N. ha denunciato la inammissibilità della eccezione di incostituzionalità per la mancata indicazione dei parametri costituzionali violati.
La L. n. 124 del 2007, come già detto, disciplina il segreto di Stato ed indica, tra l'altro, la sequenza procedimentale di opposizione/apposizione/conferma del segreto; nulla di specifico dice la legge in ordine alla possibilità di opporre ed apporre il segreto quando, per una serie di ragioni, ciò che era destinato a rimanere segreto sia stato già ampiamente divulgato.
La questione appare rilevante nel presente processo perchè sembra, per quel che è dato comprendere dalla motivazione delle due sentenze di merito, che in diversi casi il segreto non sia stato immediatamente opposto; si pensi, ad esempio, all'esame di alcuni indagati che, sentiti nella fase delle indagini preliminari, non hanno opposto il segreto, che hanno, invece, opposto in sede di esame dibattimentale, quando il contenuto delle loro dichiarazioni era divenuto già noto.
Nè si può ritenere la tempestività della apposizione del segreto in virtù della direttiva del 30 luglio 1985 sia perchè essa era indirizzata dal Presidente del consiglio ai vertici degli organismi di sicurezza e non all'autorità giudiziaria, sia perchè essa aveva il dichiarato scopo di dare degli indirizzi generali ai funzionari dei servizi per la individuazione delle informazioni da considerare segrete, la classificazione dei documenti e l'atteggiamento da assumere in caso di apposizione del segreto e di sua eventuale opposizione alla autorità giudiziaria; quindi non si può ritenere tempestiva l'opposizione del segreto in virtù della citata direttiva con riferimento agli atti assunti ed ai documenti acquisiti nel presente procedimento.
Stabilito, pertanto, che nel caso di specie e per molti atti l'opposizione del segreto è stata tardiva, bisogna anche ricordare che, come chiarito anche dalla Corte Costituzionale, l'acquisizione di documenti e notizie, nonchè l'esame degli indagati e l'assunzione di persone informate dei fatti sono avvenuti legittimamente in mancanza di opposizione del segreto di Stato da parte degli interessati prima o durante il compimento dell'atto.
Va anche precisato che in epoca precedente alla entrata in vigore della L. n. 124 del 2007, quando erano vigenti le disposizioni della L. 24 ottobre 1977, n. 801, che regolava la materia del segreto, era discutibile che gli indagati potessero opporre il segreto, problema risolto, secondo la Corte Costituzionale, dalla L. n. 124 del 2007.
Sempre legittimante venne notificato agli imputati l'avviso di deposito degli atti ex art. 415 bis cod. proc. pen. e disposto, infine, il rinvio a giudizio degli stessi.
Inevitabile fu, quindi, la divulgazione di atti e documenti acquisiti al processo, tenuto conto dello scalpore suscitato dalla vicenda della sparizione di A.O. e della attenzione prestata dalla pubblica opinione allo sviluppo del processo.
Orbene la Corte Costituzionale nella sentenza più volte citata ha chiarito "che il meccanismo della opposizione del segreto di Stato presuppone, per sua stessa natura, che esso, di regola, preceda e non segua sia l'acquisizione che l'utilizzazione dell'atto, del documento o della notizia da cautelare" ed ha altresì precisato che la tardiva comunicazione della apposizione del segreto "non può comportare retroattiva demolizione dell'attività di indagine già compiuta sulla base della precedente e legittima acquisizione degli stessi".
L'impostazione della Corte Costituzionale interpreta in modo del tutto corretto la L. n. 124 del 2007 e la finalità della stessa che, come già posto in evidenza, è quella di preservare dalla divulgazione atti e documenti che debbono rimanere segreti a tutela dei superiori interessi ampiamente descritti ed è confermata dalla lettera della legge che all'art. 202 cod. proc. pen., comma 5, come modificato dalla L. n. 124 del 2007, art. 40, stabilisce che l'opposizione del segreto di Stato......inibisce all'autorità giudiziaria l'acquisizione....delle notizie coperte da segreto; è del tutto evidente, infatti, che si può inibire l'acquisizione soltanto di documenti e notizie non ancora acquisite.
L'apposizione tardiva del segreto su atti e documenti già ampiamente divulgati, quindi, non servirebbe più a impedire la conoscenza di atti, documenti e notizie destinati a rimanere segreti, ma avrebbe l'unico effetto di rendere inutilizzabili ai fini del giudizio gli atti ed i documenti acquisiti, come sembrerebbe affermare l'art. 202 cod. proc. pen., comma 5, secondo il quale l'apposizione del segreto..... inibisce...... all'autorità giudiziaria l'utilizzazione delle notizie coperte dal segreto.
Una attenta lettura della norma (art. 202 c.p.p., comma 5) - l'opposizione....inibisce...l'acquisizione e l'utilizzazione...delle notizie coperte dal segreto - rende, però, evidente che il divieto di utilizzazione segue alla illegittima acquisizione delle notizie;
dal che si deve dedurre che quando le prove siano state acquisite legittimamente non è più possibile per una apposizione tardiva del segreto rendere le stesse inutilizzabili.
Una tale interpretazione è confortata dalla opinione della dottrina maggioritaria che proprio con riferimento all'art. 202 cod. proc. pen. ritiene che la mancata opposizione del segreto da parte del soggetto qualificato che lo detiene non renda inutilizzabile la deposizione resa ancorchè contravvenendo al dovere di opporre il segreto, in quanto manca una previsione che, introducendo un espresso divieto probatorio, in tal senso limiti i poteri istruttori del giudice e, dunque, per il principio della tassatività delle sanzioni processuali, non sussisterebbe alcun limite alla acquisizione della deposizione.
La tesi prospettata appare del tutto corretta anche perchè a volere seguire la contraria tesi della inutilizzabilità per apposizione tardiva del segreto dell'atto legittimamente assunto, si perverrebbe al risultato di snaturare completamente il senso della normativa sul segreto - L. n. 124 del 2007 - e del novellato art. 202 cod. proc. pen., che da disposizioni previste al dichiarato scopo di impedire la divulgazione di atti destinati a rimanere segreti, diverrebbero norme volte a garantire l'impunità, anche per gravi illeciti, ad agenti del SISMI, finalità quest'ultima non prevista dalla L. n. 124 del 2007, se non nei limitati casi previsti dall'art. 17 della stessa, nè dalla legge precedentemente in vigore; insomma il legislatore con le norme in esame ha voluto tutelare il segreto, ma non garantire una immunità soggettiva agli agenti del SISMI. Del resto proprio la previsione di sanzioni penali per chi, tenuto al segreto, divulghi atti e notizie riservate dimostra che la normativa in discussione si pone l'obiettivo di preservare notizie riservate dalla divulgazione e non già di garantire immunità a chi commetta illeciti penalmente perseguibili.
Sembra essere quella prospettata anche la conclusione della Corte Costituzionale, la quale, dopo avere affermato in modo chiaro che il segreto di Stato funge...da sbarramento al potere giurisdizionale,........a partire dal momento in cui l'esistenza del segreto ha formato oggetto di comunicazione alla autorità giudiziaria procedente, non ha stabilito che l'apposizione tardiva del segreto rende inutilizzabili gli atti già acquisiti, ma si è limitata ad affermare che l'opposizione e/o apposizione tardiva "non può risultare indifferente rispetto alle ulteriori attività dell'autorità giudiziaria".
Quindi nessuna inutilizzabilità degli atti legittimamente acquisiti, ma soltanto adozione di accorgimenti per le cadenze successive del processo atte ad impedire la ulteriore divulgazione del segreto, quando questa possa ancora essere dannosa per gli interessi protetti.
Quella della Corte è, pertanto, una decisione che, lungi dal dettare un principio generale, risolve il caso concreto - si trattava della perquisizione in danno di una sede del SISMI, del conseguente sequestro di documenti e del successivo invio all'autorità giudiziaria da parte del servizio degli stessi documenti con parti omissate perchè coperte da segreto - e rimprovera all'autorità giudiziaria di non avere provveduto alla adozione dei pur possibili accorgimenti, necessari ad impedire l'ulteriore ostensione di atti, nella versione non recante le obliterazioni necessarie a proteggere i dati segretati.
Sarà, quindi, necessario verificare da parte del giudice di merito se anche per altri atti e documenti per i quali sia stato apposto tardivamente il segreto sia necessario adottare accorgimenti particolari, fermo restando che gli atti già legittimamente assunti non possono essere ritenuti inutilizzabili ai fini del giudizio.
Ma, è stato osservato, secondo tale schema non si impedirebbe la ulteriore divulgazione di notizie, fatti, documenti o atti destinati a rimanere segreti e, quindi, l'apposizione, anche se tardiva, del segreto dovrebbe necessariamente comportare la inutilizzabilità degli atti coperti da segreto.
Siffatta impostazione sembra trovare un supporto nella giurisprudenza, che affrontando il tema della ulteriore divulgazione del già divulgato e del già noto in tema di rivelazione di segreti di ufficio - materia che può ritenersi, se non analoga, simile a quella in discussione - ha avuto modo di precisare che è irrilevante, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 262 cod. pen., che gli atti o fatti segreti fossero già conosciuti (Sez. 6, sent. n. 35647, del 17 maggio 2004, Vietti, rv. 229408; Sez. 6, n. 929/98 del 5 dicembre 1997, Colandrea, rv. 210438; Sez. 1, n. 10135 in data 11 luglio 1994, PG in proc. Leonelli, rv. 203760), anche se la prima sentenza citata chiariva che la condotta dell'agente aveva avuto l'effetto di divulgare la notizia segreta a settori vasti di pubblico, laddove essa era nota soltanto in ambiti limitati.
Vi è, però, un altro filone giurisprudenziale che sembra affermare il contrario in base alla osservazione che l'accertamento che le notizie sono divenute di pubblico dominio toglie ogni offensività alla ulteriore divulgazione (così Sez. 1, n. 3929 del 30 gennaio 1989, Negrino, rv. 180806; vedi anche Sez. 5, n. 6319 del 22 dicembre 1988, Bernardi, rv. 182178; Sez. 1, n. 23036 del 30 aprile 2009, PM in proc. Gabanelli, rv. 244129).
Siffatta interpretazione è certamente più logica perchè le norme sui segreti tendono ad evitare che ciò che è destinato a rimanere segreto venga reso noto e, quindi, i reati che puniscono la delittuosa rivelazione sono reati di pericolo, pericolo non più ravvisabile quando la notizia riservata sia divenuta di pubblico dominio.
Inoltre tale impostazione, come non hanno mancato di porre in evidenza le parti civili, appare in linea con la giurisprudenza della CEDU formatasi sugli artt. 6 e 13 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo, arresti di cui i giudici italiani debbono necessariamente tenere conto interpretando le norme del diritto nazionale in modo rispettoso dei principi stabiliti dalla Corte di Strasburgo.
Ebbene la Corte Europea in più occasioni ha stabilito che quando atti, fatti e notizie coperti da segreto di Stato siano già stati diffusi su larga scala, essi non possono più essere considerati oggetto di tutela. In tali ipotesi, infatti, una successiva limitazione alla divulgazione ed all'utilizzo non potrebbe essere funzionale alla protezione della sicurezza nazionale posto che la previa diffusione ne avrebbe svuotato ogni contenuto (vedi Vereniging Weekblad Bluf contro Olanda, n. 16616, 9 febbraio 1995; Observer and Guardian contro Regno Unito del 26 novembre 1991).
D'altra parte una interpretazione rigorosa delle norme in materia si impone perchè l'apposizione del segreto costituisce, comunque, un vulnus per il corretto dispiegarsi della vita democratica, che è fondata sulla trasparenza e sulla conoscenza da parte dei cittadini delle decisioni e degli atti di governo, cosicchè si deve ad esso ricorrere nei casi assolutamente indispensabili.
Per concludere sul punto la interpretazione delle norme sul segreto nel senso che non rendono possibile l'opposizione/apposizione tardiva dello stesso appare quella più rispettosa della logica e della finalità delle disposizioni in detta materia e quella maggiormente conforme alla giurisprudenza della Corte Europea formatasi sulle norme, da considerarsi interposte, degli artt. 6 e 13 della CEDU. Siffatta interpretazione rende evidente la manifesta infondatezza della eccezione di incostituzionalità della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41 sollevata dal procuratore generale di udienza, e ciò a prescindere dagli indubbi profili di inammissibilità della eccezione per mancata puntuale indicazione delle norme costituzionali violate.
24.7. L'eversione dell'"ordine costituzionale".
La Corte Costituzionale ha posto a fondamento della sua decisione anche il fatto che non vi era alcun divieto legislativo di opporre ed apporre il segreto di Stato nel caso in considerazione perchè il preteso sequestro di A.O. non poteva essere ritenuto fatto "eversivo dell'ordine costituzionale" (sul problema vedi anche Corte Costituzionale n. 40 del 2012).
Dal momento che si tratta della ratio decidendi, o meglio di una delle ragioni poste a fondamento della risoluzione dei conflitti di attribuzione, questa Corte non può che prendere atto della decisione.
Tuttavia appare opportuno segnalare alcune incongruenze esistenti nei testi legislativi che trattano la materia.
L'art. 204 c.p.p., comma 1 afferma che non possono essere oggetto del segreto di Stato "fatti, notizie o documenti concernenti reati diretti alla eversione dell'"ordinamento costituzionale".
Senonchè la L. n. 124 del 2007, art. 39, comma 11 stabilisce che non possono essere oggetto di segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti "eversivi dell'ordine costituzionale".
I due termini - ordinamento ed ordine costituzionale - non sono sovrapponibili, ma anzi hanno un significato molto diverso, apparendo assai più ampio il concetto di ordine costituzionale utilizzato dalla norma specifica in materia di segreto di Stato, riferendosi l'art. 204 cod. proc. pen. anche ad altri segreti, ovvero anche al segreto di ufficio di cui all'art. 201 c.p.p..
Con la frase fatti "eversivi dell'ordinamento costituzionale" sembra che il legislatore abbia voluto fare riferimento esclusivamente agli attentati agli organi di governo e rappresentanza previsti dalla Costituzione, dovendosi intendere per ordinamento la forma di governo, la struttura e la funzionalità degli organi istituzionali disciplinati dalla Costituzione.
L'ordine costituzionale, invece, attiene a quei principi fondamentali che formano il nucleo intangibile destinato a contrassegnare la specie di organizzazione statale, cui si è voluto dare vita; tali principi sono contenuti, prevalentemente, nei primi cinque articoli della Costituzione, la cui norma chiave è quella prevista dall'art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili sia del singolo sia delle formazioni sociali e prevede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Insorgere anche contro uno solo di questi principi sui quali si regge la concezione fondamentale della vita associata.........integra un comportamento finalizzato alla eversione dell'ordine democratico........e costituzionale (così Sez. 1, 22 maggio 1984, Lo Bianco).
E' appena il caso di ricordare che nell'art. 2 Cost. si legge che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo", ed è superfluo rammentare che tra i diritti inviolabili vi è quello alla libertà personale, della quale la persona può essere privata soltanto quando ricorrano le condizioni previste dall'art. 13 Cost., ed alla integrità fisica, che mai può essere messa in pericolo.
Nel rispetto dell'art. 204 c.p.p., comma 1 la Corte Costituzionale deve aver ritenuto che il divieto di apposizione del segreto concernesse soltanto le notizie attinenti a fatti eversivi dell'ordinamento costituzionale, apparendo difficile ritenere che il rapimento di A.O. non fosse eversivo dell'ordine costituzionale; nella sentenza n. 106 del 2009 è scritto però, forse per mero errore materiale, che il sequestro di A.O. non poteva essere ritenuto eversivo dell'ordine costituzionale; tale considerazione è confortata dal fatto che la sentenza della Corte di Cassazione richiamata dalla Corte Costituzionale a supporto della tesi sostenuta (Sez. 1, 11 luglio 1987, n. 11382) parlava appunto di sovversione dell'ordinamento costituzionale.
24.8. Opponibilità del segreto da parte dell'indagato/imputato.
Un problema assai delicato è costituito dalla opponibilità o meno del segreto da parte dell'indagato/imputato, questione sottoposta al vaglio di questa Corte dai ricorrenti P.N. e P. P..
In effetti la questione è strettamente connessa anche al diritto di difesa, essendo stato introdotto per i pubblici ufficiali depositari del segreto il divieto di riferire - L. n. 124 del 2007, art. 41, comma 1 -.
La soluzione del problema non è affatto semplice perchè la predetta disposizione non è di univoca interpretazione.
E' certo vero che i lavori preparatori della L. n. 124 del 2007 inducono a ritenere che l'art. 41, comma 1, stessa sia stato introdotto proprio al fine di consentire all'indagato/imputato di opporre il segreto di Stato come è lecito desumere dal dibattito parlamentare che mise in evidenza come con tale norma si era trovato un equo bilanciamento tra diritto di difesa e tutela del segreto.
Senonchè proprio il Parlamento eliminò dal testo base dell'art. 202 cod. proc. pen. l'espressione "ove interrogati o esaminati", che indubbiamente riconosceva anche all'indagato/imputato la possibilità di opporre il segreto.
Quindi nella situazione normativa attuale il codice di procedura penale non prevede con chiarezza una tale possibilità, tanto è vero che il citato art. 202, comma 2 esplicitamente disciplina il caso che il testimone opponga il segreto di Stato, nulla prevedendo per l'indagato/imputato, ed il comma 1, sempre del citato art. 202, prevede l'obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto per pubblici ufficiali ed impiegati; l'espressione usata "deporre" sembrerebbe, infatti, riferibile ai testimoni.
La L. n. 124 del 2007, art. 41, comma 1, però, ha vietato ai pubblici ufficiali ed agli impiegati di "riferire" su fatti coperti dal segreto di Stato; ed è già stato posto in evidenza quale sia l'interpretazione della norma suggerita dai lavori parlamentari;
siffatta interpretazione potrebbe trovare un avallo nel citato art. 41, comma 2 che prevede una sequenza procedimentale opposizione/conferma del segreto in parte diversa da quella prevista dall'art. 202 cod. proc. pen..
Ma, come è stato autorevolmente osservato da parte della dottrina, il termine "riferire" utilizzato dal legislatore nella L. n. 124 del 2007, art. 41, comma 1 non sembra riguardare dichiarazioni endoprocessuali, ma comunicazioni, informative ed audizioni al di fuori del processo penale.
Il delicato problema è stato affrontato dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 106 del 2009 risolutiva dei conflitti di attribuzione proposti nel corso del presente processo, con una motivazione di sicuro stringata, ha stabilito che "la L. n. 124 del 2007, 'art. 41 ha inteso conferire portata generale a tale obbligo - il divieto di riferire su fatti coperti dal segreto -, stabilendo, infatti, che ai pubblici ufficiali......."è fatto divieto di riferire riguardo a fatti coperti da segreto di Stato"; la Corte, poi, ha richiamato la diversa disciplina del procedimento di opposizione/conferma del segreto prevista, come già rilevato, dal predetto art. 41, al comma 2 (il problema è, poi, stato sviluppato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 40/2012, che è pervenuta ad identiche conclusioni).
Ora, a prescindere dal fatto che quanto deciso dalla Corte Costituzionale sul punto è vincolante per questa Corte dal momento che la questione rientra nella ratio decidendi del conflitto, essendo stato, peraltro, il problema posto esplicitamente in uno dei ricorsi, va detto che, secondo il Collegio, la Corte Costituzionale ha operato un equo e ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco.
Ed, infatti, se si tiene conto non solo della volontà del legislatore, peraltro sottolineata con forza nel corso del dibattito parlamentare, ma anche del dato oggettivo emergente dalle singole disposizioni che con la L. n. 124 del 2007 e con le norme novellate del codice di procedura penale il legislatore non ha inteso creare una immunità soggettiva per gli agenti del servizio di informazione per la sicurezza, ma ha voluto tutelare il segreto su fatti, notizie, atti che, se noti, potrebbero mettere a rischio beni essenziali per la vita della Repubblica, ivi compresa la stessa integrità dello Stato, si comprende come la soluzione interpretativa adottata dalla Corte Costituzionale sia quella che meglio garantisce un equilibrio fra il diritto alla difesa e la necessità di tutelare beni fondamentali per la stessa sopravvivenza della Repubblica.
Naturalmente il presupposto logico è costituito da un corretto uso del segreto di Stato da circoscrivere soltanto, come detto chiaramente dalla L. n. 124 del 2007, ad autentiche ragioni di sicurezza nazionale perchè, come non ha mancato di notare il Parlamento Europeo (Risoluzione in data 11 settembre 2012 sui presunti casi di trasporto e detenzione illegale di prigionieri in paesi Europei da parte della CIA), "l'abuso del segreto di Stato e della sicurezza nazionale costituisce un grave ostacolo al controllo democratico"; ostacoli, come rilevato nella indicata Risoluzione, che non dovrebbero mai essere posti per limitare gli obblighi degli Stati in relazione allo svolgimento di indagini su gravi violazioni dei diritti umani.
Ebbene, escluso l'abuso, va detto che quando sono a rischio l'integrità della Repubblica e delle istituzioni previste dalla Costituzione a fondamento della stessa, la indipendenza dello stato e la difesa militare, la tutela apprestata dal segreto di Stato deve prevalere su altri valori e diritti, pure importanti e rilevanti, previsti dalla Costituzione.
Cosicchè divengono recessivi rispetto al segreto sia l'interesse all'accertamento della responsabilità penale, come ha più volte chiarito la Corte Costituzionale sin dalla sentenza n. 86 del 1987, sia lo stesso diritto di difesa, che sempre la Corte Costituzionale ha detto che può subire limitazioni a causa della preminenza degli interessi tutelati dal segreto (Corte Costituzionale n. 108 del 1963).
E' vero che l'imputato in virtù dell'obbligo di non riferire potrebbe trovarsi nella impossibilità di indicare elementi a sua difesa per ottenere una assoluzione nel merito, ma è altresì vero che il legislatore, nel contemperare interessi contrapposti ha, comunque, previsto la speciale causa di improcedibilità di cui all'art. 202 cod. proc. pen., comma 3.
Cosicchè il diverso dispiegarsi del diritto di difesa non appare lesivo dei diritti dell'indagato/imputato perchè la soluzione adottata dal legislatore e convalidata dalla Corte Costituzionale è frutto di un ragionevole bilanciamento di interessi contrapposti.
24.9. Gli interna corporis.
Quanto al problema del segreto apposto sugli interna corporis posto principalmente dalle parti civili, va detto che sul punto la Corte Costituzionale, con molta chiarezza, ha spiegato che il segreto di Stato era stato apposto sulla organizzazione del servizio di informazione e sulle direttive eventualmente impartite dal direttore dell'epoca del SISMI. Si tratta di una soluzione del tutto logica e ragionevole perchè è del tutto evidente che le modalità organizzative del servizio non possano essere rese pubbliche perchè una rivelazione di tal genere metterebbe a rischio la stessa incolumità degli appartenenti al servizio e la funzionalità dello stesso.
Ugualmente è a dirsi ovviamente per le direttive impartite dai vertici del servizio.
Ciò però non può significare che tutte le testimonianze e dichiarazioni che trattino di questi aspetti siano inutilizzabili perchè interamente coperte da segreto, in quanto la copertura del segreto riguarderà soltanto quelle parti delle dichiarazioni che attengano ai profili dinanzi indicati, mentre pienamente utilizzabili saranno le altre parti delle dichiarazioni.
Così, ad esempio, saranno utilizzabili anche le dichiarazioni che riguardino attività e condotte anche di agenti dei servizi che abbiano agito a titolo individuale al di fuori delle direttive del direttore del SISMI ed al di fuori, quindi, di operazioni riconducibili al SISMI. 24.10. La conclusione delle considerazioni in tema di segreto è che, come si era preannunciato, sono fondati i motivi di ricorso del procuratore generale ricorrente e quelli delle parti civili nei limiti indicati in motivazione.
Con più specifico riferimento al secondo e terzo motivo di impugnazione del procuratore generale, che in base ai principi enunciati con il primo motivo ha sostenuto la utilizzabilità di una serie di atti istruttori, va detto che non può questa Corte operare siffatta valutazione in base ad una indicazione di alcune parti di testimonianze e dichiarazioni, nonchè di esiti di intercettazioni telefoniche perchè dovrà essere il giudice di merito, sgombrato il campo dal ed sipario nero, a verificare con precisione, alla luce dei principi e dei criteri enunciati da questa Corte, quale sia in concreto il materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione ed operare una puntuale valutazione, sostanzialmente omessa dalla corte di secondo grado, di tutte le prove ritenute utilizzabili.
Naturalmente la corte di secondo grado a conclusione della necessaria rivalutazione di tutto il materiale probatorio potrà adottare, in sede di rinvio, le decisioni di merito ritenute fondate e corrette.
Si impone in conclusione l'annullamento della sentenza impugnata, in accoglimento dei ricorsi del procuratore generale e delle parti civili - motivi 1, 2, 3, 4 e 5 -, in ordine ai proscioglimenti di P.N., C.G., D.T.R., D. G.L. e M.M., nonchè delle ordinanze del 22 e 26 ottobre 2010 della corte di appello di Milano specificamente impugnate, con le quali erano state ritenute inutilizzabili le dichiarazioni rese dagli indagati nella fase delle indagini preliminari.
24.11. L'assorbimento di alcuni motivi proposti dai ricorrenti P., D.T. e D.G..
Tenuto conto delle conclusioni raggiunte e, principalmente, del fatto che la corte di rinvio dovrà rivalutare i profili di utilizzabilità o meno del materiale probatorio raccolto alla luce dei criteri e principi enunciati da questa corte nonchè del fatto che il giudice di rinvio potrà pervenire alla soluzione di merito adeguata alle prove utilizzabili, è evidente che è superflua la trattazione di alcuni motivi di ricorso proposti da P.N., D.T. R. e D.G.L. che censuravano essenzialmente la decisione di proscioglimento ex art. 202 c.p.p., comma 3 adottata dalla corte territoriale, che è stata annullata con la presente sentenza.
Le questioni poste saranno, quindi, discusse dal giudice di rinvio, che dovrà rivalutare tutte le questioni concernenti l'opposizione/apposizione/conferma del segreto di Stato e le sue conseguenze processuali.
Restano, pertanto, assorbiti nei limiti della presente decisione i motivi quattro, cinque, sei, sette ed otto del ricorso proposto dal P..
Sul punto è opportuno soltanto precisare che può essere discutibile ed anche errata la interpretazione data dai giudici di merito alla legge sul segreto di Stato ed alla sentenza della Corte Costituzionale n. 106/2009, ma certamente rientrava nei poteri legittimi del tribunale e della corte territoriale adottare decisioni in merito, non essendosi tali giudici arrogati nessun potere spettante ad altri poteri dello Stato, come erroneamente sostenuto dal ricorrente P..
Naturalmente vanno disattesi perchè incompatibili con la motivazione del presente provvedimento tutti gli argomenti, contenuti nella memoria difensiva del P. del 31 maggio 2012, utilizzati dal ricorrente per contrastare i ricorsi del procuratore generale e delle parti civili.
24.12. Anche il motivo proposto da D.T.R. rimane assorbito per le ragioni già esposte.
Va detto che il problema posto dal D.T. della valutazione da parte del giudice della "essenzialità" dei materiale probatorio coperto da segreto ai fini del proscioglimento ex art. 202 c.p.p., comma 3 è di sicuro rilievo per definire il rapporto esistente tra detto proscioglimento e l'assoluzione ex art. 530 c.p.p., anche comma 2.
Del resto la Corte Costituzionale (Corte Costituzionale n. 40 del 2012) ha posto in evidenza la centralità del principio di essenzialità di cui all'art. 202 cod. proc. pen. e la piena autonomia del giudice nella valutazione della richiamata essenzialità.
Ebbene, nonostante l'importanza della questione bisogna rilevare una sostanziale assenza di motivazione di motivazione nella sentenza impugnata.
24.13. Quanto, infine, alla posizione di D.G.L., il primo motivo di impugnazione concerne la questione della "essenzialità" e, quindi, si rinvia alle considerazioni svolte a proposito dell'analogo motivo proposto da D.T..
Anche il secondo motivo di impugnazione rimane assorbito perchè prima di affrontare il problema della equiparazione tra opposizione del segreto e rifiuto di rendere interrogatorio, ritenuta dalla corte di merito, è necessario stabilire se l'interrogatorio del D. G. sia o meno coperto da segreto alla luce dei criteri enunciati.
Vanno, infine, disattesi perchè incompatibili con la motivazione del presente provvedimento tutti gli argomenti proposti dal D.T. e dal D.G. a sostegno della tesi della infondatezza o inammissibilità dei ricorsi del procuratore generale e delle parti civili.
25. le altre questioni poste da Ro.Jo..
25.1. La pretesa inutilizzabilità del tabulato telefonico.
Non è fondato il motivo di ricorso con il quale il Ro. ha eccepito la inutilizzabilità del tabulato telefonico attestante l'utilizzo della utenza di telefonia mobile (OMISSIS) da parte del ricorrente ed acquisito agli atti del processo perchè esibito dal maresciallo T..
Quest'ultimo, comandante della stazione dei Carabinieri della base di Aviano, aveva prodotto il tabulato privo di firma che ne attestasse la provenienza, ma aveva dichiarato di averlo ricevuto dal Communications Squadron di Aviano.
Il ricorrente ha sostenuto che non essendo state rispettate nel caso di specie le norme relative alla reciproca assistenza giudiziaria di cui al trattato NATO del 1951, l'atto si sarebbe dovuto ritenere inutilizzabile ai sensi degli artt. 191, 696 e 729 cod. proc. pen..
E' necessario premettere che la prova che la predetta utenza cellulare venne utilizzata dal colonnello Ro. dal 6 luglio 2001 al 7 luglio 2003, e che, quindi, fosse da quest'ultimo utilizzata anche il giorno del sequestro di A.O. avvenuto il 17 febbraio 2003, è stata fornita, secondo quanto si desume dalla motivazione della sentenza impugnata, dalle dichiarazioni del colonnello Sc., deceduto nelle more del processo, dalla informativa in data 25 febbraio 2005 del capitano C.A., già comandante della Compagnia aeronautica di Vicenza, e da quelle del maresciallo T.D..
Quest'ultimo, in particolare, aveva ricevuto l'incarico di svolgere indagini per accertare chi avesse in uso l'utenza cellulare indicata;
all'epoca, quindi, non vi era un indagato proprio perchè non era noto l'utilizzatore della utenza in discussione; il T. ha, poi, riferito al tribunale sulle indagini eseguite e si è avvalso per rispondere di appunti, tra i quali vi era anche il tabulato informale ricevuto dagli uffici statunitensi.
La prova del collegamento tra la utenza ed il Ro. è, quindi, costituita dalle dichiarazioni dei predetti testimoni, la cui attendibilità non è stata contestata o messa in dubbio nemmeno dal ricorrente.
Sotto tale profilo, pertanto, la questione posta dal ricorrente non appare per nulla decisiva.
In ogni caso va detto che legittimamente il T. ha svolto indagini, essendosi il reato verificato in suolo italiano e dovendosi svolgere le indagini in Italia, non godendo la base di Aviario e gli uffici ivi allocati di extraterritorialità ed immunità dalla giurisdizione penale per fatti rientranti nella giurisdizione italiana.
Il trattato di reciproca assistenza ha, come è ovvio, la finalità di facilitare le indagini quando esse si svolgano in territorio estero, che, quindi, non è sottoposto alla giurisdizione italiana;
l'art. 729 cod. proc. pen., che richiama l'art. 696 c.p.p., comma 1, il quale prevede la prevalenza delle norme convenzionali e pattizie su quelle processuali italiane, stabilisce, infatti, che la violazione di tali norme riguardanti l'acquisizione o la trasmissione di documenti o di altri mezzi di prova a seguito di rogatoria all'estero (ne) comporta la inutilizzabilità......
L'impostazione appare del tutto chiara; se un documento deve essere acquisito all'estero debbono essere rispettate le norme convenzionali, anche perchè l'esecuzione di un provvedimento deve avvenire nel rispetto della lex loci, ma se un documento deve essere acquisito in territorio italiano per un fatto rientrante nella giurisdizione italiana ed in luoghi che non godono di immunità di giurisdizione come le ambasciate o alcuni specifici locali dei consolati, vanno seguite le norme del codice italiano vigente.
Ma si impone anche un'altra considerazione sostanzialmente assorbente; in effetti il ed documento, ovvero il tabulato informale, non è un documento ufficiale, la cui acquisizione avrebbe richiesto nella tesi prospettata dal ricorrente il rispetto di alcune procedure previste dal trattato NATO, ma semplicemente un appunto, non si sa da chi redatto, concernente le indagini legittime svolte dal T.; stando così le cose, pur volendo prescindere dalla non decisività della eccezione, come innanzi precisato, non vi sono profili di inutilizzabilità dell'appunto.
Infine dalla stessa prospettazione del ricorrente si evince che il tabulato sarebbe stato consegnato al T. da un militare americano spontaneamente o, comunque, per autonoma determinazione dello stesso, cosicchè anche per tale ragione non sarebbe ravvisabile alcuna inutilizzabilità (vedi Sez. 2, 20 febbraio-13 marzo 2009, n. 11116, CED 243429 e Sez. 2, 2 luglio-11 settembre 2008, n. 351130, CED 240956).
Infondato è anche il profilo di inutilizzabilità della testimonianza del T. per violazione dell'art. 195 cod. proc. pen. per mancata indicazione della fonte delle informazioni dedotto soltanto con i motivi aggiunti.
Nel ricorso il Ro. aveva prospettato la inutilizzabilità ai sensi dell'art. 203 cod. proc. pen., ma la norma si riferisce agli informatori - confidenti - della polizia giudiziaria e tale non risulta che sia il militare statunitense di stanza ad Aviano che avrebbe fornito l'informazione.
Più precisamente, anche se tardivamente, con i motivi aggiunti è stata eccepita la inutilizzabilità ai sensi dell'art. 195 cod. proc. pen..
Senonchè la inutilizzabilità delle dichiarazioni indirette è comminata dall'art. 195 citato soltanto quando sia disattesa la richiesta di parte di audizione dei testimoni di riferimento, ovvero della fonte (ex multis - trattasi di giurisprudenza costante - Sez. 6, 3 giugno-9 luglio 2009, n. 28029, CED 244415; vedi anche Sez. 5, 25 gennaio-15 febbraio 2007, n. 6522, CED 236057, che ha escluso che alla omissione di richiesta in primo grado potesse ovviarsi con una richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale).
Orbene, pur volendo prescindere dalla violazione dell'art. 585 c.p.p., comma 4, non risulta che il ricorrente abbia richiesto l'audizione della fonte in primo grado, nè che abbia effettuato tale richiesta con i motivi di appello (richiesta che, comunque, non avrebbe potuto essere accolta in virtù di costante giurisprudenza di legittimità), cosicchè l'eccepito profilo di inutilizzabilità delle dichiarazioni del maresciallo T. è infondato.
Anche il riferimento alla inutilizzabilità di cui all'art. 195 c.p.p., comma 7 è infondata perchè il maresciallo T. non si è mai rifiutato di indicare la fonte delle sue informazioni, posto che, secondo quanto risulta dalle sentenze di merito, non gli è mai stato chiesto, nè dalle parti nè dall'Ufficio, di rivelarla.
25.2. Del pari infondata, anzi manifestamente infondata, è la dedotta violazione dell'art. 495 c.p.p., comma 2, artt. 507 e 603 cod. proc. pen. concernente il rigetto della richiesta di parziale riapertura del dibattimento per escutere i tenenti colonnelli Q. e W. ed il maresciallo T..
Le prove richieste, infatti, non hanno nessun carattere di decisività, tenuto conto di tutto quanto si è detto in precedenza.
Inoltre il Q. ed il W. avrebbero dovuto testimoniare su tesi e valutazioni giuridiche, ovvero sulla applicabilità della convenzione di reciproca assistenza nel caso de quo; si tratta, pertanto, di rispettabili opinioni e valutazioni non acquisibili tramite testimonianza; il T., invece, avrebbe dovuto riferire il nome dell'informatore americano, cosa assolutamente superflua dal momento che il ricorrente non ha chiesto tempestivamente l'audizione della fonte del T..
25.3. La nullità del decreto che dispone il giudizio.
E' necessario premettere che la nullità del decreto che dispone il giudizio è ravvisabile, ai sensi dell'art. 429 cod. proc. pen., comma 2, oltre al caso di incerta identificazione dell'imputato, soltanto quando il fatto contestato non sia enunciato in forma chiara e precisa o quando manchi la indicazione dell'ora e del luogo di consumazione del reato.
Orbene, scartate le ipotesi di insufficiente identificazione dell'imputato e quella della mancata indicazione del luogo e del tempo del commesso reato, che pacificamente non ricorrono nel caso di specie e che non costituiscono oggetto del motivo di ricorso, resta l'ipotesi della insufficiente contestazione.
In effetti il ricorrente, a parte la denuncia di carenze probatorie, che nulla hanno a che vedere con il motivo dedotto e che saranno prese in considerazione nell'esame del motivo seguente con il quale si è contestata la esistenza di prove di responsabilità, ha sostenuto che l'accusa di avere partecipato alla operazione congiunta CIA/SISMI consistente nel rapimento di A.O. posta a fondamento del rinvio a giudizio era venuta meno con l'apposizione del segreto sulle dichiarazioni del maresciallo Pi. e che, pertanto, nessun elemento vi era per ritenere che il Ro. avesse partecipato senza alcuna valida ragione ad un sequestro di persona.
La tesi difensiva è destituita di fondamento perchè, come è noto, la funzione del decreto che dispone il giudizio è quella di indicare con precisione il fatto attribuito all'imputato in modo da consentirgli di apprestare una adeguata difesa (ex multis Sez. 4, 25 febbraio-11 agosto 2004, n. 34289, CED 229070).
Sotto tale profilo il capo di imputazione è molto preciso perchè al Ro. è stato contestato di avere concorso nel sequestro garantendo, nella sua qualità di responsabile della sicurezza della base di Aviano, ai sequestratori ed al sequestrato l'ingresso nella base e l'imbarco di A.O. su un volo diretto in un Paese estero.
L'accusa è estremamente precisa, tanto è vero che ha consentito al Ro. di dispiegare una difesa molto articolata.
Il fatto che da una ipotesi di una operazione congiunta CIA/SISMI si sia pervenuti, in base alle sentenze di merito, ad una operazione della sola CIA perchè non si è riusciti a provare le accuse nei confronti degli uomini del SISMI per l'opposizione/apposizione del segreto non muta per nulla i termini della accusa rivolta al Ro., al quale, lo si ripete, con estrema precisione, era stata indicata la condotta censurata.
E', infine, appena il caso di notare che nel decreto che dispone il giudizio debbono essere indicate sommariamente le fonti di prova - in ogni caso l'imprecisione sul punto non comporta alcuna nullità - e che nel caso di specie esse sono state puntualmente indicate; la valutazione della fondatezza o meno delle prove spetta poi, ovviamente, al giudice di merito.
Tra tali fonti vi erano anche le dichiarazioni del maresciallo Pi.; è vero che l'incidente probatorio relativo anche all'interrogatorio del Pi. è stato annullato dalla Corte Costituzionale, ma è pure vero che le dichiarazioni dallo stesso rese legittimamente in sede di indagini preliminari ben potevano essere poste a fondamento del rinvio a giudizio.
Ciò a prescindere dal fatto che le dichiarazioni del Pi. sono state riportate ampiamente nella sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. pronunciata nei confronti dello stesso ed acquisita come documento agli atti del presente processo e, quindi, pienamente utilizzabile.
Ma tutto ciò evidentemente concerne il merito della vicenda, ma non certo la valutazione della completezza o meno dell'accusa contenuta nel decreto che dispone il giudizio.
25.4. Il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità.
Si tratta di un motivo di impugnazione inammissibile perchè con lo stesso il ricorrente ha dedotto questioni di merito non consentite nel giudizio di legittimità.
In effetti, pur avendo formalmente censurato la motivazione della sentenza impugnata sotto il profilo della illogicità e della contraddittorietà, il Ro. ha contestato la valutazione delle prove compiuta dai giudici del merito ed ha prospettato una diversa interpretazione, per il ricorrente più favorevole, dei dati processuali ed una alternativa ricostruzione dei fatti.
Si tratta di operazioni non consentite perchè, come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze (ex multis S.U. 24 novembre-16 dicembre 1999, n. 24, Spina).
Insomma nel sistema processuale italiano la valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti compete, in via esclusiva, ai giudici dei primi due gradi di giurisdizione, mentre alla Corte di Cassazione spetta, per volontà del legislatore, di verificare che le predette valutazioni siano sorrette da una motivazione congrua ed immune da manifeste illogicità.
Nel caso di specie, inoltre, si tratta di una doppia conforme, nel senso che in punto responsabilità le due sentenze di merito sono pervenute ad identico risultato, fatto che non può essere irrilevante nella valutazione di competenza del giudice di legittimità.
Sugli elementi di fatto presi in considerazione dai giudici del merito non vi sono contrasti e contestazioni; che A.O. sia stato rapito a Milano, sia stato trasportato ad Aviano ed ivi imbarcato per Ramstein non vi sono dubbi; si tratta di circostanze che possono ritenersi pacifiche.
Come pure, superate le eccezioni di inutilizzabilità del tabulato telefonico acquisito e delle dichiarazioni del maresciallo T., deve ritenersi pacifico che l'utenza cellulare (OMISSIS), contrassegnata con il numero 23 della tabella in atti, venisse utilizzata dal colonnello Ro., essendo essa assegnata funzionalmente al comandante del 31 Squadron Security Forces (SFS) che all'epoca dei fatti era appunto il Ro., che era, unitamente ad un ufficiale italiano, il responsabile della sicurezza della base di Aviano.
Infine altrettanto non contestato è il fatto che tale utenza di telefonia mobile sia stata contattata tre volte durante il trasporto di A.O., anche se per telefonate di breve durata, da utenze i cui titolari sono risultati implicati nel sequestro, e sia stata utilizzata per contattare un numero telefonico in uso a militari della base di Ramstein pochi minuti dopo il decollo dell'aereo che ivi stava trasportando il sequestrato; altri due contatti della predetta utenza con altri due cellulari appartenenti a persone implicate nel sequestro e delle quali uno si trovava ad Aviano, sono stati pure messi in evidenza nella motivazione della sentenza impugnata.
Orbene i giudici del merito hanno messo in collegamento i dati indicati e, partendo dalla logica considerazione che perchè il convoglio, composto da un furgone sul quale era stato caricato A. O. e da altri mezzi che trasportavano i suoi sequestratori, potesse entrare nella base militare, nonostante le semplificazioni delle procedure di entrata di cui godevano gli addetti ai servizi segreti, era necessario il coinvolgimento, al massimo livello, dei responsabili della base stessa, hanno ritenuto che i collegamenti telefonici del Ro. con alcuni dei rapitori proprio nelle fasi di avvicinamento del convoglio alla base, costituisse un indice importante della sua partecipazione alla operazione.
A ciò deve aggiungersi che l'operazione non poteva passare inosservata perchè, come è stato correttamente posto in evidenza dai giudici dei primi due gradi, il numero non irrilevante delle persone giunte alla base, la necessità di trasportare A.O. dal furgone all'aereo, il fatto che alcune persone che avevano partecipato al sequestro presero posto sull'aereo per Ramstein, mentre altre, con i mezzi con i quali erano arrivati ad Aviano, ripartirono pressochè immediatamente, costituivano segni evidenti di una operazione anomala, di sicuro non usuale.
Infine, fatto certamente di sicuro rilievo nella ricostruzione della vicenda, dalla utenza in uso al Ro. partì una telefonata per Ramstein alle ore 18,26 del 17 febbraio 2003, ovvero pochi minuti dopo il decollo dell'aereo diretto in tale località da Aviano avvenuto alle ore 18,20.
Orbene da tutti gli elementi illustrati i giudici del merito hanno raggiunto la convinzione che il Ro. fosse perfettamente consapevole della operazione, perchè era proprio l'addetto alla sicurezza della base che poteva garantire una entrata del gruppo con A.O., che non era invisibile, per le ragioni già esposte, e non possedeva alcun badge per il passaggio semplificato, e l'uscita dalla base per via aerea di una persona non identificata; quindi il ruolo svolto dal Ro. era certamente rilevante.
L'impostazione della corte di merito appare del tutto ragionevole ed immune da manifeste illogicità, che, in effetti, non sono state puntualmente indicate dal ricorrente.
Per concludere sul punto una tale ricostruzione dei fatti ed una tale valutazione del materiale probatorio non risultano per nulla inficiate, come correttamente ritenuto dalla corte di merito, dalle considerazioni del ricorrente, non apparendo rilevante, nel contesto considerato, la breve durata delle telefonate, nè la mancata conoscenza del contenuto delle stesse, nè il fatto che gli agenti dei servizi di informazione avessero un accesso semplificato alla base (ma A.O. non era un agente); ed apparendo del tutto irrazionale sostenere, come ha fatto il ricorrente, che una operazione di tale complessità ed articolazione sia avvenuta nella inconsapevolezza del responsabile della sicurezza - o di uno dei due responsabili - della base di Aviano.
25.5. Di merito, e, quindi, inammissibili sono le considerazioni del ricorrente in ordine alla dosimetria della pena ed al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Che il fatto sia grave è circostanza fuori contestazione; rapire una persona per destinarla ad una prigione in un Paese straniero per essere sottoposta ad interrogatori da condurre con metodi non convenzionali, sapendo, peraltro, che si trattava di fatto punito severamente in Italia e che A.O. era rifugiato politico e persona indagata dalle Autorità italiane è un fatto di sicura gravità, come ha rilevato anche il Parlamento Europeo nella risoluzione già richiamata.
Le considerazioni di merito svolte dalla corte territoriale per negare le attenuanti generiche e per determinare la pena in misura superiore ai minimi edittali non meritano, pertanto, nessuna censura sotto il profilo della legittimità perchè prive di manifeste illogicità.
Quanto alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 605 cod. pen., ovvero la partecipazione alla operazione del pubblico ufficiale maresciallo Pi. con abuso delle proprie funzioni, va detto che la corte territoriale, con motivazione immune da vizi logici, ha spiegato che la complessità e particolarità della vicenda - tra l'altro rapimento avvenuto in una pubblica via, rifugio in una base controllata da militari nordamericani, ma anche italiani - imponevano la esistenza di un aggancio con forze di polizia locali, anche al fine di evitare un possibile scontro con le stesse; in effetti la partecipazione del Pi. alla materiale esecuzione del sequestro unitamente ad agenti statunitensi è stata accertata con sentenza passata in giudicato.
Quanto alla consapevolezza del Ro. di tale aggancio, i giudici del merito hanno ragionevolmente ritenuto che il ruolo del ricorrente, di notevole delicatezza ed importanza per garantire il buon esito della operazione, e la necessità di assicurare preventivamente la sua disponibilità a collaborare rendevano del tutto ragionevole ritenere che fosse stato informato degli elementi essenziali della vicenda, tra i quali rientrava la partecipazione del Pi., ritenuta essenziale per il buon esito dell'operazione, tanto è vero che lo stesso venne reclutato direttamente da uno dei capi della CIA in Italia, ovvero da L.R.; anche tale motivazione è immune da manifeste illogicità.
Quanto, infine, al fatto che il Ro., militare USA, non avrebbe potuto fare altro che eseguire un ordine impartitogli dai suoi superiori, va detto che, pur volendo accogliere l'impostazione del ricorrente, precisando che si tratta di una ipotesi, del tutto ragionevole per le ragioni già esposte, ma pur sempre una ipotesi, il Ro. operava in Italia da molto tempo e, quindi, era ben a conoscenza che si trattava di un ordine assolutamente illegittimo costituendo le consegne straordinarie reato in Italia; si sarebbe, quindi, trattato di un ordine avente ad oggetto la commissione di un reato, ordine che, peraltro, non atteneva al servizio del ricorrente ed eccedeva i compiti di istituto di militare della NATO; in siffatta situazione il Ro. si sarebbe dovuto rifiutare di eseguire un ordine palesemente illegittimo (vedi Sez. 5, 25 novembre 2008-11 febbraio 2009, n. 6064, CED 243325 e Sez. 5, 11 dicembre 2008-20 aprile 2009, n. 16703, CED 243332).
Non solo non è possibile, pertanto, ravvisare l'esimente di cui all'art. 51 cod. pen., che, comunque, il Ro. non ha esplicitamente richiesto, ma nemmeno l'ipotizzata esecuzione di un ordine può costituire valido elemento per pretendere una riduzione della pena o il riconoscimento delle attenuanti generiche.
25.6. Per quanto riguarda gli altri motivi di impugnazione si rinvia ai paragrafi nei quali sono stati discussi e disattesi: paragrafo 20) per le questioni attinenti all'eccepito difetto di giurisdizione e paragrafo 21) per quanto concerne le pretese nullità delle notifiche degli atti processuali.
26. Gli altri motivi di ricorso di c.e., ca.
v., Gu.Jo.Th. K.J.R., J. A.L. e U.B..
26.1. I motivi di ricorso concernenti la pretesa nullità delle notificazioni, ivi compresa la vocatio in ius, l'opposizione/apposizione del segreto di Stato e la pretesa inammissibilità della costituzione di parte civile di A.O. sono stati discussi in precedenti paragrafi - nn. 21), 22) e 24) - ai quali si rinvia.
26.2. Le censure alla affermazione di responsabilità.
Di merito ed infondato è il secondo motivo di impugnazione, con il quale i ricorrenti, che sono stati accusati di avere partecipato alla fase preparatoria del sequestro, hanno censurato la valutazione degli indizi ed hanno denunciato la impossibilità di ricostruire la vicenda.
Con il motivo di ricorso in discussione i ricorrenti hanno formalmente denunciato la violazione delle regole previste dall'art. 192 cod. proc. pen. sulla valutazione degli indizi, ma in realtà hanno richiesto alla corte di cassazione una rivalutazione del materiale probatorio, prospettando la possibilità di ricostruzioni alternative.
Come si è già notato a proposito di analogo motivo del ricorrente Ro., così impostato il motivo diviene improponibile, non spettando alla corte di cassazione rivalutare il materiale probatorio raccolto, operazione che è di esclusiva competenza dei giudici del merito.
In ogni caso va detto che, come si è già notato nella parte narrativa, i giudici dei primi due gradi di giurisdizione hanno compiuto una attenta analisi del materiale di indagine e lo hanno valutato rispettando i criteri di valutazione degli indizi previsti dall'art. 192 cod. proc. pen..
Senza ripetere quanto già detto nel paragrafo 2) al quale si rinvia, ma soltanto rammentando i passaggi essenziali, nel presente processo le indagini hanno preso le mosse dalle dichiarazioni della testimone R.M. e dall'esame di numerosi tabulati telefonici relativi ai contatti telefonici verificatisi prima, durante e dopo il rapimento di A.O. nella cella relativa a via (OMISSIS), luogo del rapimento.
Ristrette le indagini alle utenze sospette - perchè attivate poco tempo prima del sequestro e disattivate subito dopo, o perchè contattate un numero notevole di volte, o perchè in contatto con utenze presenti nel luogo ed al momento del rapimento ecc. ecc. - si è poi verificato dove dormissero i cellulari in modo da controllare gli alberghi ove si erano trattenuti i titolari di quelle utenze;
sono poi state verificate le prenotazioni aeree fatte con le utenze predette, i noleggi di auto, le contravvenzioni stradali ricevute e pagate, gli spostamenti sul territorio, i contatti tra le predette utenze, oltre, ovviamente, la identificazione dei titolari delle stesse tramite i documenti presentati ai check in degli alberghi.
L'esame approfondito di tutto questo materiale - è da notare che i ricorrenti non hanno contestato la legittimità delle indagini, essendosi limitati a sostenere che gli elementi raccolti non erano sufficienti per una affermazione di responsabilità - ha consentito ai giudici di merito di ricostruire la vicenda e di individuare un certo numero, ma non tutti, di partecipanti all'impresa.
E' anche giusto ricordare che gli elementi raccolti trovavano una conferma negli esiti della perquisizione in danno di L.R. e nei dati custoditi dal suo computer, ove in particolare erano annotati gli alberghi utilizzati dai ricorrenti.
Ulteriore conferma i dati raccolti trovavano nelle dichiarazioni di Pi.Lu., che erano riportate nella sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. pronunciata nei suoi confronti, oltre che nel memoriale di A.O. ed in altri elementi che appare superfluo ricordare.
Orbene detto questo in linea generale, per quel che concerne i ricorrenti che hanno proposto il motivo in discussione va detto che in modo puntuale la corte di merito ha riportato i contatti telefonici avuti dagli stessi ed ha delineato i loro spostamenti, segnalando anche improvvise partenze da alcuni alberghi di più imputati, fatto che ha legittimamente consentito di ritenere che i ricorrenti facessero parte di un unico gruppo e che eseguissero ordini agli stessi impartiti.
La corte ha anche precisato, tenendo, evidentemente, presente l'elaborazione giurisprudenziale sul punto, che i singoli contatti costituenti indizi valutati isolatamente non potevano avere un significato decisivo, ma che considerati nel loro insieme non potevano che delineare il ruolo e, quindi, le responsabilità dei singoli imputati; metodo assolutamente corretto perchè rispettoso dei criteri di valutazione previsti dall'art. 192 cod. proc. pen., che non è, pertanto, censurabile in sede di legittimità.
Il gruppo degli attuali ricorrenti partecipò alla fase preparatoria del rapimento, ovvero acquisì dati importanti sulle abitudini di vita di A.O., sui luoghi e sulle persone che frequentava, dati necessari per organizzare un rapimento senza correre rischi di essere bloccati da amici del rapito o dalle autorità di polizia italiana, visto che A.O. era controllato anche da queste ultime.
E' proprio per evitare interventi delle forze di polizia italiana che il L. si assicurò i servigi del maresciallo dei Carabinieri Pi.Lu. e, presumibilmente, di altre persone, ma è ancora da accertare, appartenenti ai servizi segreti italiani.
Siffatto ruolo è stato accertato dai giudici di merito proprio in base all'analisi dei contatti telefonici, della permanenza in alberghi, e dei contatti tra di loro e con altri imputati, circostanze che testimoniavano la presenza anche ripetuta dei ricorrenti nei luoghi ove si verificò il rapimento anche alcuni mesi prima che lo stesso venisse consumato.
Naturalmente non è questa la sede per riportare tutti i contatti telefonici presi in considerazione dai giudici di merito, dal momento che ciò che rileva è che gli stessi siano stati esaminati e valutati in base ai criteri dinanzi indicati.
Il contributo fornito alla buona riuscita della operazione fu, dunque, rilevante perchè senza i preventivi accertamenti, senza il calcolo preciso del percorso da compiere con il furgone che trasportava il rapito, l'operazione non si sarebbe potuta compiere in regime di sicurezza per i rapitori materiali e con speranza di successo.
Sostenere in tale contesto che non venne fornito da parte dei ricorrenti un valido contributo che ha agevolato la commissione del reato non appare, in verità, possibile; dal che deriva, correttamente, la contestazione del concorso nel sequestro di persona in danno di A.O..
Del resto gli stessi ricorrenti hanno riconosciuto di essere agenti della CIA e ciò hanno affermato per giustificare una serie di contatti telefonici tra di loro e con altre persone implicate nel sequestro; ma in tal modo hanno reso legittima, perchè del tutto ragionevole, la interpretazione di tali contatti e delle presenze fornita dai giudici di merito perchè il rapimento fu organizzato appunto dalla CIA e stranamente i ricorrenti presenti sulla zona del delitto prima del compimento di esso abbandonarono l'Italia, salvo due che si recarono per pochi giorni a Venezia, prima della consumazione del reato; è, infatti, del tutto evidente che chi avesse partecipato ai pedinamenti ed agli accertamenti preparatori non potesse partecipare materialmente alla operazione perchè avrebbe potuto più facilmente essere riconosciuto, mettendo così a rischio la buona riuscita della stessa.
A fronte di tutto ciò ha scarso rilievo, come ha stabilito la corte di secondo grado, sapere chi abbia effettuato i pedinamenti, chi gli accertamenti chilometrici ecc. ecc, perchè ciò che conta è la correttezza dell'accertamento secondo il quale tutti i ricorrenti, con diverse mansioni e compiti, ebbero a partecipare alla importante e delicata fase preparatoria del delitto.
Naturalmente le considerazioni che precedono valgono per tutte le posizioni e, quindi, anche per quelle della I. e di Gu., che, secondo la tesi dei ricorrenti, sarebbero rimasti soltanto pochi giorni in Italia e non avrebbero avuto molti contatti; sul punto sarà sufficiente osservare che la I., o meglio l'utenza cellulare alla stessa intestata, fu presente sul luogo ove venne commesso il reato per almeno due volte nonostante i pochi giorni di permanenza in Italia, e che il Gu. era in contatto con ca.; inoltre entrambi questi due imputati alloggiavano negli stessi alberghi degli altri ricorrenti e si muovevano in gruppo, come se stessero obbedendo ad un ordine o dovessero compiere una attività comune.
Non vi è, dunque, alcun manifesto vizio logico, che in verità non è stato nemmeno denunciato, nella valutazione dei giudici di merito;
si tratta di valutazioni di merito (si è in presenza di una ed doppia conforme) del tutto ragionevoli non censurabili in sede di legittimità.
E' infondato, pertanto, anche il terzo motivo di impugnazione.
26.3. L'erronea identificazione dei ricorrenti.
Il motivo di ricorso è comune ai ricorrenti che hanno proposto il ricorso in discussione e ai ricorrenti americani di cui al paragrafo seguente, ovvero A., As., Ca., Ch., D., H., Ha., L., Lo., Pu., P., So. e V. - motivo n. 1 del ricorso di questi ultimi -;
la questione sarà, pertanto, discussa in questa sede per tutti i ricorrenti che la hanno proposta.
Naturalmente il problema non si pone per L.R.S. perchè, essendo lo stesso console statunitense in Italia, è assolutamente certa la sua identificazione fisica e quella anagrafica; il motivo di ricorso è per il L. manifestamente infondato.
Gli altri ricorrenti si sono doluti del fatto che la loro identità anagrafica non era stata accertata con certezza, essendo avvenuta in base ai documenti presentati alle ricezioni alberghiere; sarebbe ravvisabile, pertanto, la violazione degli artt. 66 e 349 cod. proc. pen..
Il motivo di ricorso non è fondato.
E', infatti, del tutto pacifico che il processo penale è valido quando sia certa l'identità fisica della persona - art. 66 c.p.p., comma 2 - non essendo rilevante l'eventuale errore sulle generalità, che può essere rettificato con la procedura ex art. 130 cod. proc. pen. - art. 66 c.p.p., comma 3 - (vedi Sez. 6, 3 dicembre 2007-24 gennaio 2008, n. 3949, CED 238376).
Quindi soltanto la impossibilità assoluta di identificare fisicamente gli imputati e non la mera difficoltà o l'incertezza di pervenire alla esatta acquisizione delle generalità legittima la formula di proscioglimento "per essere rimasti Ignoti gli autori del reato" (vedi Sez. 2, 17 novembre 2005-4 settembre 2006, n. 29558, CED 235304).
Sarà l'Autorità giudiziaria o la polizia giudiziaria ad accertare le generalità degli imputati, potendosi effettuare a cura di quest'ultima anche rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonchè altri accertamenti ritenuti necessari, come prescritto dall'art. 349 cod. proc. pen., ovvero quando si ha motivo di ritenere la falsità delle generalità fornite (sulla non obbligatorietà degli accertamenti di cui all'art. 349 cod. proc. pen. vedi Sez. 5, 5 maggio-1 giugno 2010, n. 20759, CED 247614;
contra, però, Sez. 3, 11 maggio-15 giugno 2010, n. 22777, CED 247549).
Orbene se questa è la normativa di riferimento, corretta appare la decisione dei giudici di merito.
In effetti è del tutto pacifico che i titolari delle utenze telefoniche utilizzate per l'operazione A.O. erano persone fisicamente esistenti; si tratta delle stesse persone che si sono recate nei vari alberghi controllati perchè ivi dormivano, se è consentito usare tale termine, anche i cellulari di cui si è detto.
E' del tutto chiaro allora nei confronti di quali persone fisiche si sono svolte le indagini prima ed il processo poi.
Le generalità di tali persone sono state accertate tramite la polizia giudiziaria, che ha svolto indagini presso i suddetti alberghi e presso uffici noleggio auto ecc. ecc., ovvero presso tutti i luoghi ove quelle persone fisiche avevano consegnato carte di identità, passaporti o altri documenti di identificazione ed hanno acquisito, nei casi in cui erano state conservate, le fotocopie dei documenti prodotti.
Le indagini espletate rendono, quindi, certi che le generalità acquisite corrispondono alle persone fisiche che utilizzavano i cellulari individuati nelle zone ove erano state effettuate le attività preparatorie e quelle ove era stato consumato il delitto, oltre a quelle presenti in Aviano - o lungo il tragitto per raggiungere da Milano tale località -.
Nessuna anomalia procedurale si è verificata e, quindi, la identificazione degli imputati è avvenuta correttamente.
E' inconferente il richiamo all'art. 349 cod. proc. pen. perchè gli ulteriori accertamenti - dattiloscopici, antropometrici e simili - presuppongono di norma la presenza degli imputati, a meno che non si tratti di pregiudicati o di clandestini dei quali sia già stato acquisito l'esame dattiloscopico, condizioni non ravvisabili certamente nel caso di specie.
Può darsi, in ogni caso, che le generalità fornite dagli imputati agli albergatori non siano corrette, ma ciò non impedisce affatto lo svolgersi del procedimento e non rende gli atti compiuti nulli, potendo, come si è già detto, correggersi le generalità errate con la procedura degli errori materiali.
E', infine, appena il caso di osservare che i ricorrenti hanno prospettato in astratto la possibilità di errore nella identificazione degli imputati, ma non hanno fornito alcun elemento concreto che potesse fare dubitare in alcuni casi della correttezza delle identificazioni effettuate; sotto tale profilo il motivo presenta aspetti di genericità.
26.4. Le questioni poste dai ricorrenti in ordine al segreto di Stato ed alle conseguenze processuali derivanti dalla apposizione dello stesso e dalle decisioni della Corte Costituzionale con la sentenza n. 106 del 2009 sono già state affrontate nel paragrafo n. 24) dedicato al segreto di Stato e, quindi, alle considerazioni ivi svolte si rinvia.
Bisogna aggiungere che è errata l'affermazione che lo sbarramento probatorio determinato dalla apposizione del segreto avrebbe impedito l'analisi e la valutazione del segmento di condotta attribuito ai ricorrenti.
Le cose non stanno così perchè, come si è già chiarito, non vi è stata nessuna limitazione all'accertamento del reato e delle relative responsabilità, essendo soltanto stata dichiarata la inutilizzabilità, nei limiti precisati nel richiamato paragrafo, di alcune fonti di prova, fermo restando la piena utilizzabilità di tutte le altre fonti di prova non coperte da segreto.
Ebbene da quanto detto in precedenza emerge che la responsabilità degli attuali ricorrenti è fondata sugli accertamenti effettuati sui tabulati telefonici, sulle indagini svolte presso gli alberghi ove avevano soggiornato gli imputati e su tutti gli altri elementi già indicati; nessuno di questi elementi di prova risulta coperto dal segreto di Stato, nemmeno le dichiarazioni del maresciallo Pi., non solo perchè riportate nella sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., documento acquisito regolarmente agli atti, ma anche perchè in questo caso il segreto sulle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari risulta tardivamente apposto e non produttivo, quindi, di alcuna inutilizzabilità.
Questo motivo di impugnazione risulta, quindi, manifestamente infondato.
Ma, hanno osservato ancora i ricorrenti, l'apposizione del segreto, non consentendo di approfondire i rapporti esistenti tra i servizi segreti italiano ed americano, non ha consentito di provare che gli imputati avevano agito nell'adempimento di un dovere.
La tesi non ha fondamento.
Nel richiamare tutte le considerazioni svolte su analoga osservazione dell'imputato Ro., che, comunque, era un militare, che, di norma, deve eseguire gli ordini dei superiori gerarchici, a meno che non si tratti di ordini illegittimi, va detto, quale ulteriore considerazione, che non solo l'adesione ai servizi segreti è su base volontaria, cosicchè è giusto ritenere che chi decida di compiere quel lavoro conoscendone metodi e finalità, accetti pure le conseguenze dei suoi atti illeciti, ma principalmente che i ricorrenti lavoravano tutti agli ordini di L. e della D.S., che, essendo agenti consolari in Italia da molto tempo, erano ben a conoscenza della grave illiceità della operazione A.O. per l'ordinamento italiano.
Tanto ciò è vero che il L., per garantirsi una copertura e per assicurare il buon esito della operazione coinvolse nella stessa anche Pi.Lu., maresciallo dei ROS dei Carabinieri, come si è già notato, e coinvolse, o tentò di coinvolgere, anche agenti del servizio di sicurezza italiano; circostanze queste ben a conoscenza, come si è già detto, degli agenti della CIA che si occuparono della fase preparatoria del sequestro.
Cosicchè anche l'osservazione che la collaborazione dei servizi segreti italiani avrebbe indotto gli agenti americani a ritenere l'operazione A.O. legittima è priva di qualsiasi fondamento.
26.5. Il motivo di ricorso concernente la dosimetria della pena ed il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche è manifestamente infondato e si risolve in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.
La corte territoriale ha, infatti, ragionevolmente spiegato che si trattava di una fatto estremamente grave perchè il sequestro era avvenuto superando di prepotenza la sovranità dello Stato italiano sul proprio territorio e scavalcando le competenze dell'autorità giudiziaria e di quelle di polizia che stavano indagando su A. O..
Ed ancora la corte di secondo grado ha rilevato la gravità del fatto anche dalle finalità del sequestro, che era quello di mettere A. O. a disposizione delle autorità egiziane che lo avrebbero sottoposto a torture, come dalla stessa parte lesa denunciato.
Ebbene si tratta di motivazione, che, in verità, non è nemmeno stata sottoposta a specifica critica dai parte dei ricorrenti, non censurabile sotto il profilo della legittimità.
26.6. L'aggravante di cui all'art. 605 c.p., comma 2, n. 2.
E' infondato il settimo motivo di impugnazione con il quale i ricorrenti hanno sostenuto che nel caso di specie non ricorreva l'aggravante di cui all'art. 605 c.p., comma 2, n. 2.
Detta norma prevede un consistente aumento della pena base prevista per il delitto di sequestro di persona, quando lo stesso sia commesso da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alla funzione.
In punto di fatto è fuori dubbio, perchè risulta dalle sue stesse dichiarazioni, che il Pi., maresciallo dei Carabinieri e, quindi, pubblico ufficiale, abbia partecipato sia alla fase preparatoria che alla consumazione del delitto; in tale ultima occasione il Pi. fermò A.O. per la strada chiedendogli i documenti per identificarlo, consentendo in tal modo agli agenti americani di costringere la parte lesa ad entrare in un furgone.
Non vi è alcun dubbio che si sia trattato di un grave abuso delle sue funzioni.
L'aggravante in parola è di natura soggettiva e rientra tra quelle concernenti le qualità personali del colpevole e non tra quelle inerenti alla persona del colpevole, cosicchè si comunica al correo se dallo stesso conosciuta o ignorata per colpa (Sez. 5, 31 marzo-22 maggio 1992, n. 6143).
Nessun dubbio vi può essere sul fatto che coloro i quali parteciparono materialmente al sequestro erano ben a conoscenza della qualità del Pi., anche perchè l'operazione fu organizzata in modo tale da essere propiziata, come si è detto, proprio dal suo illegittimo intervento.
Non vi sono argomenti specifici nella sentenza impugnata con riferimento alle persone che compirono attività preparatorie, tuttavia dal complesso della motivazione si comprende che anche tali imputati erano a conoscenza del ruolo e della attività del Pi., come si è avuto già modo di rilevare.
Si è notato, infatti, discutendo di analoga questione posta dal Ro., che le attività di pedinamento e controllo di una persona, espongono gli agenti al pericolo di essere scoperti, denunciati, quando compiano azioni non lecite, e fermati da agenti di polizia che non siano a conoscenza delle attività in corso; in siffatte situazioni è essenziale, per evitare intralci e garantire il buon esito della operazione, assicurarsi la copertura di elementi della polizia locale.
Per tale ragione il L. convinse il Pi. a collaborare; gli agenti americani addetti alla fase preparatoria del delitto che lavoravano agli ordini del L., che era uno dei responsabili in Italia della CIA ed uno degli organizzatori della operazione, dovettero necessariamente essere avvertiti della collaborazione per potere lavorare con maggiore tranquillità e speditezza, coscienti di non correre rischi perchè garantiti dalla presenza del Pi., che pure svolgeva attività preparatoria.
Quanto emerge dalla motivazione impugnata sul punto appare del tutto ragionevole, cosicchè, come detto, il motivo di impugnazione risulta infondato.
27. Gli altri motivi di impugnazione di A., As., Ca., Ch., D., H., Ha., L., Lo., Pu., P., So. e V..
27.1. Il terzo motivo del ricorso di L.R.S. concernente la immunità consolare e quella funzionale è già stato discusso in un paragrafo precedente - n. 23) - al quale si rinvia.
27.2. Anche il primo motivo di ricorso riguardante tutti i ricorrenti dinanzi indicati e relativo alla dedotta violazione dell'art. 66 cod. proc. pen. ed alla scorretta identificazione degli imputati è stato trattato nel precedente paragrafo - n. 26.3.) - al quale, quindi, si rinvia.
27.3. Le censure alla affermazione di responsabilità dei ricorrenti.
Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti hanno dedotto la violazione di legge - art. 125 c.p.p., comma 3, art. 192 c.p.p., comma 1, artt. 546 e 605 cod. proc. pen. e art. 111 Cost. - ed il vizio di motivazione in ordine alla loro ritenuta responsabilità.
Come si è già notato a proposito di un analogo motivo proposto dai ricorrenti c., ca. ed altri - paragrafo 26.2.), alle cui considerazioni generali si deve necessariamente rinviare - il motivo in discussione si risolve in censure di merito inammissibili in sede di legittimità.
Ed, infatti, anche se formalmente è stata dedotta la violazione di legge sotto il profilo, essenzialmente, della mancanza di motivazione, in realtà sono state contestate la ricostruzione dei fatti operata dai giudici dei primi due gradi di giurisdizione e la valutazione degli elementi di prova, prevalentemente indiziari, compiuta dagli stessi giudici, laddove, come è noto, la corte di cassazione non può sovrapporre una propria valutazione del materiale probatorio, dovendosi limitare a verificare se le valutazioni dei primi giudici siano o meno sorrette da una motivazione congrua ed immune da manifeste illogicità.
I ricorrenti, dopo avere riportato in parte la motivazione della sentenza impugnata che più direttamente riguardava la loro posizione, hanno ritenuto illogico che i giudici avessero ritenuto attendibile la teste Re.Me., ammettendo come possibile che il sequestro fosse stato attuato senza uso di violenza, affermazione in palese contraddizione con il capo di imputazione, che descrivendo l'episodio aveva parlato di un A.O. immobilizzato con la forza e fatto salire su di un furgone.
Il rilievo è privo di fondamento.
Il delitto di sequestro di persona è configurabile ogni qualvolta taluno venga privato della libertà personale, non essendo rilevanti le modalità con cui venga raggiunto tale risultato.
Ed, infatti, la privazione della libertà personale può essere attuata con l'uso della violenza, ma anche con minacce, che possono anche essere implicite.
Ebbene la corte territoriale ha ragionevolmente spiegato che A. O., vistosi circondato da numerose persone determinate a farlo salire sul furgone e resosi conto che non aveva alcuna possibilità di reazione con speranza di successo, sia salito a bordo del furgone senza gridare e senza opporre plateale resistenza; del resto una tale ricostruzione è stata confortata, come chiarito dalla corte territoriale, dalle dichiarazioni della moglie di A.O., alla quale quest'ultimo aveva descritto le modalità del rapimento.
Di sicuro non vi è alcun elemento che consenta di ritenere che si sia trattato di un allontanamento volontario, e nemmeno i ricorrenti hanno avanzato una tale possibilità.
Il fatto che la ricostruzione operata dai giudici di secondo grado contrasti con un passaggio del capo di imputazione - con la forza immobilizzandolo - non ha alcun significato perchè con l'ampio capo di imputazione è stato contestato agli imputati di avere privato della libertà personale A.O., essendo irrilevante con quali modalità si sia verificato il caricamento a bordo del furgone.
E' appena il caso di notare che la rilevata discrasia non comporta alcuna violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., peraltro nemmeno eccepita dai ricorrenti, perchè quello indicato non costituisce un mutamento degli elementi essenziali della contestazione.
Anche il denunciato vizio di motivazione concernente la valutazione dell'esito delle analisi del traffico di cella delle utenze cellulari, la identificazione degli utilizzatori dei telefoni cellulari de quibus e l'esito dell'analisi comparata avente per oggetto i dati riguardanti le presenze alberghiere ed i noleggi di auto e quelli relativi al traffico di cella, è privo di fondamento.
Per le valutazioni generali sulla correttezza del metodo di indagine utilizzato e sulla corretta adozione dei criteri indicati dall'art. 192 cod. proc. pen. per la valutazione degli indizi esistenti a carico degli imputati si deve rinviare, al fine di evitare inutili ripetizioni, a quanto già rilevato in proposito nel paragrafo precedente.
E' opportuno segnalare che la corte territoriale ha analizzato con puntualità e precisione la posizione di ogni singolo imputato indicando per ciascuno le utenze dei telefoni cellulari utilizzate, i tempi di attivazione e di dismissione della utenza, i contatti telefonici, specialmente quelli tra imputati ed i luoghi ove si sono verificati, gli alberghi ove utilizzatori e cellulari hanno pernottato; dalla complessa analisi dei dati i giudici dei primi due gradi hanno identificato le persone che hanno partecipato materialmente al rapimento, quelle che hanno compiuto anche attività preparatorie, quelle che hanno trasportato il rapito ad Aviano e quelli, come L., che hanno svolto attività di organizzazione e di supporto.
Evanescenti, per non dire inesistenti, sono le critiche a tale impostazione, essendosi i ricorrenti limitati a rilevare che si trattava di ipotesi investigative e che i dati furono raccolti soltanto nel 2005.
Non si comprende la ratto della censura perchè che i dati siano stati acquisiti due anni dopo il fatto è circostanza priva di rilievo e la tesi che si tratti di semplici ipotesi investigative è smentita dalla motivazione delle sentenze di merito che dimostrano come quelle ipotesi siano state ampiamente verificate.
Al di là di queste critiche generali, ed anzi generiche, nel motivo in discussione nulla di specifico si è osservato in merito al rapporto stabilito dai giudici dei primi due gradi di giurisdizione tra utenze telefoniche ed utilizzatori per la maggior parte degli imputati, mentre alcuni rilievi sono stati effettuati nell'interesse di alcuni ricorrenti.
I rilievi concernenti Ch. e V. non hanno pregio perchè la motivazione della sentenza impugnata ha chiarito la questione posta.
Ch. aveva acquistato due schede telefoniche - le numero 30 e 31 dell'elenco in atti -, una intestata a lui stesso e l'altra, presumibilmente per mero errore, ad altra persona, tale Ga..
Senonchè i giudici hanno accertato che due imputati Ch. e V. si erano mossi sempre insieme e le due utenze telefoniche erano state attivate pressochè contemporaneamente e disattivate la sera nello stesso albergo; l'attribuzione all'uno e all'altro delle schede telefoniche, acquistate entrambe da Ch. ed utilizzate certamente da Ch. e V. è stata effettuata in virtù di una chiamata della scheda n. 30 ad una utenza greca; il ragionamento dei giudici di merito appare del tutto logico e non censurabile in punto legittimità.
Alle stesse conclusioni deve pervenirsi per quanto riguarda i rilievi concernenti l'attribuzione ad As. di una utenza, che era intestata ad un nome fittizio - anche altre quattro utenze attribuite ad altri quattro ricorrenti erano intestate allo stesso nome fittizio -, perchè i giudici di merito sono pervenuti a tale risultato proprio incrociando i dati derivanti dai contatti telefonici anche con i numeri fissi di un albergo ove il ricorrente aveva soggiornato.
Quanto ai ricorrenti Ha., H. e D. il ricorso si limita a contestare genericamente il metodo di attribuzione delle utenze telefoniche ai singoli ricorrenti con il metodo della sovrapposizione delle celle nelle quali risultavano attivi i cellulari; ad identico motivo di appello la corte ha risposto con motivazione immune da vizi logici e sul punto i ricorrenti non hanno dedotto nemmeno esplicitamente un vizio della motivazione.
E' bene sottolineare che la difesa ha censurato aspetti marginali, ma non ha contestato i numerosi elementi, particolarmente significativi, posti in evidenza dalla corte territoriale e concernenti il fatto che tutte le utenze telefoniche furono attivate nei mesi o nei giorni immediatamente precedenti il sequestro e disattivate subito dopo di esso - la A. disattivò il cellulare il giorno dopo il sequestro -, che le utenze in questione erano in continuo contatto tra di loro ed erano quasi tutte presenti in via (OMISSIS) all'ora del rapimento - A., As., H., Ha., che fu presente anche nei giorni precedenti, Pu., R.P., presente in quel luogo nei giorni precedenti altre ottantacinque volte, So., presente altre quarantasette volte, mentre Ca. e Lo. il 17 febbraio 2003 erano presenti in (OMISSIS) nei pressi del raccordo autostradale -, e che alcune utenze si recarono ad Aviano - Ch., V., Ca. -.
Del tutto infondati sono anche i rilievi contenuti nel ricorso concernenti l'affermata responsabilità di L.R.S., console nordamericano in Milano e alto sovrintendente della CIA in Italia settentrionale.
Il ricorrente ha denunciato che i contatti telefonici con gli altri imputati erano in numero modesto e, quindi, poco significativo e che non vi erano altre prove a suo carico perchè la dichiarazioni del maresciallo Pi. erano inutilizzabili perchè coperte da segreto di Stato.
L'impostazione è errata.
Quanto al segreto di Stato sarà sufficiente osservare che le dichiarazioni del Pi., che non era un agente dei servizi, ma un maresciallo del ROS, sono state riportate nella motivazione della sentenza emessa nei suoi confronti ex art. 444 cod. proc pen., documento ritualmente acquisito e certamente utilizzabile.
Inoltre, tenuto conto delle osservazioni svolte in tema di segreto, va detto che la Corte Costituzionale ha statuito il parziale annullamento dell'incidente probatorio riguardante il Pi. nella parte in cui l'atto istruttorio appariva diretto ad accertare l'esistenza di "una operazione congiunta" CIA/SISMI, ovvero una tematica relativa ai rapporti tra i servizi segretata dalla Presidenza del Consiglio.
Dal momento che, come si è rilevato più volte, una operazione congiunta autorizzata dai vertici del servizio di informazione italiano non è ravvisabile, le dichiarazioni del Pi., che ha riferito quanto confidenzialmente raccontatogli dal L., sono, quindi, pienamente utilizzabili.
La corte territoriale ha poi posto a carico del L. anche le dichiarazioni del tenente colonnello D.S.'Ambrosio, che non ha mai invocato il segreto di Stato, collimanti con quelle del Pi., i numerosi contatti con gli altri agenti implicati nel sequestro, il fatto che si sia recato al Cairo nei giorni immediatamente successivi al sequestro ed il materiale rinvenuto nella sua casa di (OMISSIS), ed in particolare quanto emergeva dal computer sequestrato (ricerca tramite Wikipedia della strada più breve per raggiungere Aviano da Milano, l'elenco degli alberghi convenzionati con la CIA, ove poi effettivamente alloggiarono diversi ricorrenti, l'e-mnail ricevuta nella quale l'interlocutrice manifestava timore per possibili arresti e di cui si è già detto quando si è discusso della volontaria sottrazione degli imputati alla esecuzione della misura custodiale).
Si tratta di una mole rilevante di elementi probatori che il ricorrente non ha proprio tentato di contestare, fatto salvo l'invocato segreto sulle dichiarazioni del Pi..
27.4. Infondato è anche il quarto motivo di impugnazione.
La corte ricorda molto bene il dramma dell'abbattimento delle torri gemelle a New York ed il clima di paura e preoccupazione che rapidamente si diffuse in tutto il mondo.
Ricorda molto bene anche la consapevolezza che ben presto maturò di reagire energicamente a quanto accaduto e di individuare gli strumenti più idonei per debellare il terrorismo internazionale e quello di matrice islamica in particolare.
E' in questo clima di tensione che furono adottati drastici provvedimenti - alcuni dei quali sono già stati in precedenza ricordati - dall'allora Presidente e dal Congresso degli Stati Uniti d'America; in tale contesto furono inasprite anche le disposizioni che rendevano legittime le ed consegne straordinarie.
E', altresì, necessario ricordare che anche le polemiche che si svilupparono, anche negli Stati Uniti, per l'adozione di provvedimenti ritenuti contrari al diritto umanitario furono di particolare virulenza.
Ebbene, come si è già in precedenza avuto modo di precisare, il clima indicato ed i provvedimenti adottati dai responsabili governativi nordamericani, non rendono giustificabile, sotto il profilo penale, la condotta degli imputati americani ai sensi dell'art. 51 cod. pen..
E' vero che le cause di giustificazione sarebbero in teoria applicabili anche nel caso di specie perchè previste, tra l'altro, esplicitamente dal trattato di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale, ma, come si è già notato a proposito di analogo motivo dedotto dai ricorrenti c. ed altri, oltre che dal Ro., considerazioni alle quali si rinvia, gli agenti americani erano perfettamente a conoscenza della illegalità della operazione in Italia, ove non era riconosciuto un istituto simile alle extraordinary renditions, anche perchè L. e D.S., capi dell'operazione, erano consoli in Italia e, quindi, ben conoscevano la legislazione del nostro Paese, conoscenza posseduta anche dal Ro. perchè militare USA di stanza in Italia; la disobbedienza ad un ordine perchè manifestamente criminoso era, pertanto, pienamente giustificata; non sono, quindi, sussistenti nel caso di specie i presupposti richiesti perchè venga riconosciuta la esimente di cui all'art. 51 cod. pen..
27.5. Manifestamente infondato e di merito è il motivo concernente il diniego delle attenuanti generiche e la dosimetria della pena per le ragioni espresse al paragrafo 26.5.) al quale si rinvia al fine di evitare inutili ripetizioni.
28. La posizione di F.V. e ha.ja.th..
28.1. Il primo motivo di impugnazione, comune a numerosi ricorrenti e concernente la pretesa nullità delle notifiche degli atti processuali agli imputati latitanti, è stato già trattato al paragrafo n. 21) e, quindi, alle argomentazioni ivi esposte per dimostrarne la infondatezza si rinvia.
28.2. E' infondato il secondo motivo di impugnazione che lamenta la mancata traduzione dell'ordinanza cautelare notificata al difensore di ufficio nella lingua madre dell'imputato.
In punto di fatto il ricorrente ha precisato che tutti gli atti notificati al difensore di ufficio sono stati tradotti nella lingua madre degli imputati ad eccezione della ordinanza cautelare che venne tradotta in un secondo momento, ovvero quando venne richiesta l'estradizione del F. e dell' ha. al Ministro di giustizia.
Deve senz'altro essere condiviso l'indirizzo secondo il quale è necessaria la traduzione dell'ordinanza cautelare, anche se non contestualmente alla emissione o alla esecuzione della misura (Sez. 6, 4/30 dicembre 2008, n. 48469, CED 242147), allo straniero alloglotta, ma ciò deve avvenire soltanto quando risulti, inequivocabilmente, dagli atti in possesso del giudice al momento della sua adozione, che lo straniero non era in grado di comprendere la lingua italiana (così S.U. 24 settembre 2003-9 febbraio 2004, n. 5052, Zalagaitis, CED 226717); nel caso di specie tale condizione non sussisteva, o almeno i ricorrenti non hanno fornito alcun elemento per ritenere che ricorresse.
In ogni caso l'ordinanza che non sia stata portata a conoscenza dello straniero in una lingua a lui nota è affetta da una nullità a regime intermedio (così S.U. Zalagaitis citata) e, quindi, sanabile.
Inoltre è bene rilevare che l'imputato straniero alloglotta che si pone in una condizione processuale in cui gli atti processuali debbano essere notificati mediante consegna al difensore non subisce alcuna lesione concreta dei suoi diritti per effetto della loro mancata traduzione (Sez. 6, 13 novembre-12 dicembre 2007, n. 47550, CED 238224); nel caso di specie i due ricorrenti si sottrassero volontariamente alla esecuzione della misura, come si è già notato.
Infine, e la considerazione è assorbente, la pretesa nullità della ordinanza cautelare si sarebbe dovuta far valere nel corso del procedimento incidentale de libertate e non nel processo di merito, cosa che, invece, non è mai stata fatta, tanto è vero che anche nel ricorso avverso l'ordinanza del tribunale del riesame una siffatta eccezione non era stata formulata (vedi Sez. 5, 5701/07 del 15 gennaio 2007, F. + 2).
28.3. Nonostante gli encomiabili sforzi della difesa, che ha collocato la condotta dei ricorrenti nella grave situazione emergenziale seguita all'attentato alle torri gemelle ed ha giustificato la stessa perchè consentita dalla legislazione americana dell'epoca, il terzo motivo di ricorso non è fondato.
Si può certamente convenire che la legislazione americana, almeno quella vigente all'epoca dei fatti di cui è processo, prevedeva la legittimità delle extrorinary renditions, come non si è mancato di rilevare trattando la posizione del Ro. e di altri ricorrenti, alle cui osservazioni si rinvia; ed è certamente vero che la legislazione emergenziale non escludeva nemmeno il ricorso alla tortura nella lotta contro il terrorismo, come ricordato dagli stessi ricorrenti; come pure non si può escludere che l'operazione A. O. venne disposta da superiori gerarchici degli agenti CIA che parteciparono con vari ruoli e responsabilità al sequestro del presunto terrorista.
Ma tutto ciò non vale ad escludere la responsabilità dei ricorrenti per quanto hanno commesso in Italia.
In effetti i ricorrenti, che non hanno contestato con il ricorso gli elementi indiziari esistenti contro di loro, se non in modo del tutto generico, hanno sostenuto di avere eseguito un ordine legittimo di un loro superiore adempiendo ad un dovere di ufficio ed hanno ritenuto l'operazione legittima in Italia perchè confortati dalla partecipazione alla stessa di agenti del SISMI, ovvero di una istituzione italiana, cosicchè nei loro confronti avrebbe dovuto trovare applicazione l'esimente prevista dall'art. 51 cod. pen., quantomeno sotto il profilo putativo; in ogni caso, hanno aggiunto i ricorrenti, non avrebbero dovuto essere revocate le attenuanti generiche riconosciute dal giudice di primo grado.
Tale impostazione, come già si è detto a proposito di analogo motivo di ricorso del colonnello Ro. e degli altri agenti CIA implicati nel presente processo, non può essere condivisa.
Nel richiamare tutte le considerazioni già svolte sul punto nei paragrafi precedenti ed alle quali si rinvia, vanno svolte alcune ulteriori osservazioni.
E' in primo luogo inaccettabile l'accusa rivolta ai giudici del merito di avere operato una discriminazione in danno di cittadini americani ed a vantaggio degli imputati italiani; la differente soluzione processuale delle diverse posizioni, che, peraltro, questa Corte non ha condiviso nei termini nei quali è stata proposta, tanto è vero che è stato disposto l'annullamento con rinvio del proscioglimento degli imputati italiani, era dovuta alla opposizione/apposizione del segreto di Stato, che ha reso, secondo l'interpretazione data dai giudici dei primi due gradi di giurisdizione alla decisione della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione, inutilizzabili una serie di prove portando quei giudici di merito a ritenere impossibile una soluzione della posizione degli imputati italiani non meramente processuale.
Il fatto costituente reato - rapimento di A.O. - correttamente è stato ritenuto non coperto dal segreto di Stato, come detto esplicitamente dalla Corte Costituzionale, cosicchè gli elementi di prova non coperti da segreto erano pienamente utilizzabili sia per provare il fatto sia per provare la responsabilità dei singoli imputati.
Ebbene in base a indizi e prove tutti utilizzabili e non messi in discussione dalla difesa in questa sede di legittimità è stata affermata la penale responsabilità per il fatto loro attribuito, tra gli altri, di F. e ha..
Si possono o meno condividere le soluzioni adottate dai giudici del merito, ma parlare di discriminazione in tale contesto è profondamente errato in punto di diritto; si tratta, dunque, di una critica scorretta.
L'apposizione del segreto su alcune fonti di prova non ha leso il diritto di difesa dei due ricorrenti, come si è sostenuto.
Nel richiamare tutte le considerazioni svolte a proposito di analoghe considerazioni del Ro. e nel ricordare che la responsabilità dei ricorrenti è stata provata in base ad elementi non coperti da segreto, va detto che allo stato non vi sono elementi per affermare una partecipazione del SISMI alla operazione, essendo, invece, possibile ipotizzare la partecipazione individuale di alcuni agenti dei servizi italiani, oltre a quella di persone estranee ai servizi come il Pi..
Ma anche se venisse provata la partecipazione del SISMI al rapimento certamente non sarebbe ravvisabile, nemmeno sotto il profilo putativo, l'esimente invocata.
La condotta posta in essere dagli imputati era legittima per la legislazione americana, ma è un fuor d'opera ricordare che nel nostro ordinamento vige il principio della territorialità della legge penale; cosicchè cittadini e stranieri che soggiornino nel nostro Paese sono tenuti a rispettare la legislazione penale italiana; per la nostra legislazione la privazione della libertà individuale non è mai consentita, se non a seguito di un ordine legittimo dell'Autorità giudiziaria; il fatto attribuito ai due ricorrenti è stato, quindi, correttamente inquadrato come violazione dell'art. 605 cod. pen..
Ma, si è obiettato, gli agenti americani che agivano per effetto di ordini legittimi in base alla legislazione americana, non sapevano della illiceità della operazione in Italia e anzi erano convinti della liceità della stessa per la partecipazione del SISMI. Come si è già avuto modo di rilevare e come i ricorrenti hanno riconosciuto, tutti gli agenti americani agivano agli ordini, oltre che di Me., di L. e D.S., che per essere agenti consolari in Italia ben conoscevano la legislazione italiana ed erano consapevoli della illiceità della operazione, come dimostrano le modalità dell'azione, l'accurata segretezza della stessa, la clandestina spedizione di A.O. in Egitto ed il tentativo di copertura e protezione ad opera delle forze di polizia italiane con il coinvolgimento di uomini appartenenti alle forze di polizia o ai servizi segreti.
Come è possibile parlare in tale contesto di inconsapevolezza della illiceità della condotta posta in essere e della estrema gravità della stessa non è facile comprendere, tanto più che la posizione di contrarietà italiana, ed anzi Europea, alle pratiche di extraordinary rendintions era nota per essere stata riportata da numerosi organi di stampa italiani e stranieri.
La conclusione del ragionamento è inevitabile: gli agenti CIA erano perfettamente consapevoli della manifesta illegalità in Italia dell'ordine ricevuto e mai avrebbero potuto essere tratti in inganno dalla partecipazione alla operazione di agenti italiani;
semplicemente non avrebbero dovuto eseguire l'ordine che sarebbe stato loro impartito.
Le considerazioni che precedono rendono evidente la infondatezza dei rilievi dei ricorrenti anche in ordine alla revoca del riconoscimento delle attenuanti generiche, disposizione sulla quale nulla di specifico hanno dedotto.
28.4. Infondati, ed anzi inammissibili sono, infine, i rilievi contenuti nei motivi nuovi.
Con gli stessi si è criticato il metodo investigativo fondato sugli accertamenti del movimento di telefoni cellulari ed in particolare si è sostenuto che mai era stata accertata una circostanza decisiva costituita dalla ampiezza delle celle stimata apoditticamente in quattro/cinquecento metri.
I rilievi sono in primo luogo inammissibili perchè nei motivi di ricorso le prove a carico degli imputati, costituite appunto principalmente dall'esito delle indagini sui movimenti dei telefoni cellulari utilizzati dai ricorrenti, non sono state oggetto di alcuna censura, fatta eccezione per un richiamo del tutto generico.
E' noto, infatti, che secondo la giurisprudenza di legittimità con i motivi nuovi non possono impugnarsi parti del provvedimento gravato che non siano stati oggetto della preventiva impugnazione (ex multis Sez. 2, 4/26 novembre 2003, n45739, CED 226976).
Diversamente opinando verrebbero frustrati i termini per la proposizione del gravame, la cui osservanza è prescritta a pena di inammissibilità della impugnazione.
In ogni caso i rilievi sono infondati ed il richiesto accertamento non è per nulla decisivo.
In questa sede converrà ricordare che già questa Sezione in sede cautelare (Sez. 5, n. 5701/2007, del 15 gennaio 2007, F. e ha.) - la situazione non è sostanzialmente mutata a seguito della istruttoria dibattimentale - rilevò la manifesta infondatezza dei rilievi.
Si tratta, infatti, di censure di merito perchè i giudici dei primi due gradi hanno congruamente giustificato la ricostruzione dei movimenti dei ricorrenti nella imminenza e nel corso del sequestro, fondata sulla localizzazione dei telefoni cellulari dagli imputati utilizzati, sulla frequentazione degli stessi alberghi ove erano alloggiate altre persone coinvolte nel sequestro, sulla perfetta coincidenza tra i tempi di permanenza in Italia degli imputati e i tempi di svolgimento delle operazioni connesse al rapimento e sul viaggio di ha.ja. in Germania in coincidenza con il trasferimento in Egitto di N.O.M.H. via Ramstein. A fronte di elementi di tale consistenza è difficile comprendere l'incidenza della ampiezza delle celle sulla prova, posto che quale che sia tale ampiezza gli investigatori sono riusciti ad individuare i cellulari sospetti ed attraverso l'incrocio con altri dati ad identificare gli utilizzatori degli stessi.
29. Gli altri motivi di ricorso di D.S.S..
29.1. La pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni di D'.St..
E' infondato il primo motivo di impugnazione con il quale la D. S. ha eccepito la inutilizzabilità delle dichiarazioni del tenente colonnello D'.St., all'epoca dei fatti responsabile del SISMI in Lombardia, perchè coperte da segreto di Stato.
Il D'. aveva, tra l'altro, riferito quanto appreso da L. R. in ordine alla posizione della ricorrente; il giudice di primo grado aveva ritenuto tali dichiarazioni non utilizzabili perchè coperte dal segreto, mentre la corte territoriale le aveva ritenute parzialmente utilizzabili - un limitato margine di utilizzabilità - con riferimento alle notizie apprese non riguardanti i rapporti tra i due servizi.
La questione va risolta alla luce di tutte le osservazioni sviluppate in tema di segreto nell'apposito paragrafo, considerazioni alle quali si rinvia.
D'.St., interrogato in sede di indagini preliminari e, poi, nel corso del dibattimento di primo grado, come già ricordato, non ha mai opposto il segreto di Stato, nè il segreto è stato apposto dalle competenti Autorità politiche.
Già questa prima osservazione non consente di ritenere coperte da segreto e, quindi, inutilizzabili le dichiarazioni del D'., che sono state acquisite legittimamente prima che la Corte Costituzionale risolvesse i conflitti di attribuzione, quando le dichiarazioni del D'. erano già divenute di dominio pubblico.
Il D'., inoltre, non ha riferito in merito ai rapporti esistenti tra CIA e SISMI in via generale o in ordine ad una operazione congiunta CIA/SISMI per la semplice ragione che una operazione congiunta dei due servizi non è stata accertata nel presente processo ed, anzi, è stata con forza esclusa dai vertici politici ed istituzionali (del SISMI) italiani; del resto, come non si è mancato di porre in evidenza, mai avrebbe potuto il SISMI partecipare con la CIA ad una operazione congiunta di tal genere, non rientrando tra i compiti istituzionali del servizio di informazioni italiano il rapimento, con successiva custodia in prigioni riservate, e la sottoposizione a tortura di persone, che, peraltro, godevano di asilo politico in Italia.
L'eventuale partecipazione di agenti italiani alla operazione A. O. è, quindi, avvenuta a titolo individuale, in virtù dei rapporti personali esistenti con il L., o altri dirigenti della CIA in Italia.
Le dichiarazioni del D'. concernono, come detto, cose apprese da L., che manifestava al collega ed amico le sue perplessità in ordine al sequestro di A.O.; è certo probabile che il L., consapevole del fatto che le sue perplessità sarebbero state riferite anche ai superiori gerarchici dal D'., essendo evidente che un responsabile del servizio che viene a conoscenza della progettazione di gravi reati in territorio italiano ha il dovere di riferirlo ai suoi superiori, si sia posto l'obiettivo di un intervento del SISMI per bloccare l'iniziativa della CIA, ma ciò non fa venir meno la natura del rapporto D'. - L. nè la natura confidenziale del colloquio non inquadrabile nei rapporti istituzionali tra i due servizi, così come disegnati dalla Corte Costituzionale.
Si deve, inoltre, escludere, per tutto quanto detto a proposito del segreto, che siano coperte da segreto le circostanze apprese non in via istituzionale, ma per ragioni amicali o per partecipazione individuale ad una operazione da altri compiuta, su possibili responsabilità, anche per effetto del ruolo ricoperto, di alcune persone per gravi delitti commessi sul territorio nazionale, anche se si tratta di appartenenti ad un servizio segreto straniero.
Quanto al dedotto travisamento del fatto perchè dalle dichiarazioni rese dal D'. emergerebbe che quello intrattenuto con il L. sia stato un rapporto di tipo istituzionale, va detto in primo luogo che la interpretazione e valutazione delle testimonianze compete ai giudici del merito ed è, invece, preclusa alla corte di cassazione; inoltre sarebbe praticamente impossibile per il giudice di legittimità operare una valutazione in base alle poche battute di un interrogatorio estrapolate da un contesto e riportate nel ricorso.
Sul punto si può soltanto affermare che la motivazione che sorregge la valutazione compiuta dal giudice di secondo grado in ordine alla natura del rapporto L. - D'. è immune da vizi logici e, quindi, non censurabile in questa sede di legittimità; a ciò deve aggiungersi che, come si è già detto, la natura istituzionale del rapporto in relazione alla vicenda del rapimento di A.O. deve essere esclusa perchè non vi è stata alcuna operazione congiunta dei due servizi tesa al sequestro della parte lesa.
Si deve, pertanto, concludere che le dichiarazioni del D'., anche quelle che riguardano la posizione di D.S.S., sono pienamente utilizzabili e non solo parzialmente come stabilito dalla corte territoriale.
29.2. La valutazione di responsabilità.
Manifestamente infondato e di merito è il secondo motivo di impugnazione, con il quale la ricorrente ha censurato la valutazione degli indizi a suo carico compiuta dai giudici del merito.
Come si è già notato a proposito di analoghi motivi di impugnazione proposti dagli altri ricorrenti americani, osservazioni alle quali si rinvia, anche la ricorrente D.S. mira a trasformare la corte di cassazione in un terzo giudice di merito non previsto dal nostro ordinamento.
Il giudice di legittimità non può sovrapporre proprie valutazioni probatorie a quelle operate dai giudici dei primi due gradi, ma deve limitarsi a verificare la congruenza e la non manifesta illogicità del ragionamento probatorio ed il suo ancoraggio ai criteri interpretativi fissati dal legislatore e precisati dalla giurisprudenza di legittimità.
Non è condivisibile il metodo di analisi degli indizi prospettato dalla ricorrente perchè essa ha esaminato atomisticamente i vari indizi per affermarne la mancanza di gravità e precisione e la possibilità di una interpretazione alternativa degli stessi.
In effetti sin dal 1992 (S.U. 4 febbraio 1992, Ballan) il giudice di legittimità ha chiarito che nella valutazione di una molteplicità di indizi è certamente necessaria una preventiva valutazione di indicatività di ciascuno di essi, anche se di portata possibilistica e non univoca, essendo successivamente doveroso e logicamente imprescindibile un esame globale ed unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa di ciascun elemento probatorio possa risolversi (vedi anche S.U. 12 luglio 2005, Mannino, CED 231678).
Si è, altresì, rilevato che nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, sì che il limite della valenza di ognuno risulta superato e l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, in modo da conferire al complesso indiziario pregnante ed univoco significato dimostrativo (Sez. 1, 9 giugno-30 luglio 2010, n. 30448, CED 248384).
Insomma i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli indizi vanno verificati a seguito di un esame globale degli stessi e non in seguito ad una valutazione parcellizzata.
Cosicchè il metodo seguito dalla corte territoriale appare del tutto corretto e la valutazione di significatività degli indizi, perchè gravi, precisi e concordanti, compiuta all'esito di un esame globale degli stessi non è censurabile in questa sede di legittimità, essendo il sindacato di legittimità limitato alla verifica del ragionamento probatorio (Sez. 4 12 novembre-17 dicembre 2009, n. 48320, CED 245880).
Orbene, nonostante le censure della ricorrente, il ragionamento probatorio della corte territoriale appare corretto e non censurabile in sede di legittimità.
Senza volere ripercorrere e riproporre tutta l'impostazione della corte territoriale, va detto che certamente due telefonate di breve durata con un cellulare utilizzato da H. possono avere un modesto significato ed essere suscettibili, come suggerito dalla ricorrente, di interpretazioni diverse.
Ma se tale dato viene posto in relazione al fatto che il cellulare di H.R. era fittiziamente intestato, come altri quattro utilizzati da altrettanti imputati, a tale Ti., persona inesistente, per la evidente necessità di coprire gli utilizzatori, ed alla circostanza che proprio l' H. era presente in via (OMISSIS) al momento del rapimento e si recò in Germania a seguito del trasferimento di A.O. in tale Paese, nonchè al fatto che i contatti telefonici avvennero nel periodo immediatamente precedente alla operazione, è del tutto evidente che assume ben altra significatività e gravità.
Ma, ha osservato la difesa, trattandosi di utenza telefonica utilizzata da un agente della CIA, i contatti telefonici di D.S. S., che era una delle responsabili del servizio di intelligence americano, avrebbero potuto avere un significato diverso.
Orbene non serve prospettare possibili interpretazioni alternative perchè ciò che la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare è la manifesta illogicità della interpretazione degli elementi processuali offerta dai giudici del merito; ciò non è riuscita a fare, essendosi limitata a sostenere che sarebbero state possibili anche altre interpretazioni.
Ma i dati presi in considerazione vanno valutati, come correttamente ha fatto la corte di merito, anche unitamente alla famosa mail della C., della quale si è già detto, che riferiva a L. informazioni che S. aveva fornito a To. in ordine alla pehcolosità di un viaggio in Italia, dimostrativa di una approfondita conoscenza della ricorrente della vicenda del sequestro e delle gravi implicazioni per gli agenti americani.
E' certo vero che il nome S. non è esclusivo appannaggio della D.S., ma il fatto che tale nome sia legato ad una precisa informativa su una vicenda italiana effettuata in un momento in cui le indagini milanesi stavano prendendo corpo e vigore dimostra che la persona con tale nome aveva un preciso interesse alla vicenda e si preoccupava anche di sollecitare i suoi compagni di avventura ad essere prudenti.
Inoltre l'informativa è di circa due anni successivi al fatto;
contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, secondo la quale il lungo tempo trascorso consentirebbe una diffusa conoscenza del fatto e, quindi, una impossibilità di ricondurre la informativa alla D.S., il tempo trascorso - ben due anni - normalmente affievolisce l'attenzione sui fatti verificatisi in luoghi lontani e che, comunque, non hanno visto l'arresto di nessun americano;
l'attenzione, invece, rimane sempre viva anche a distanza di anni in chi sia in qualche modo implicato in quella vicenda.
E' per tale ragione che la identificazione della S. della e- mail con quella coinvolta nel sequestro operata dalla corte di merito appare del tutto ragionevole e per nulla affetta da quella manifesta illogicità denunciata dalla ricorrente.
Agli elementi fin qui esaminati debbono essere aggiunte le dichiarazioni di D'.St., sulla cui utilizzabilità si è già detto, e di Pi.Lu..
Orbene, secondo la interpretazione che di tali dichiarazioni è stata fornita dalla corte territoriale, dalle stesse emergerebbe che la D. S. venne inviata a Milano proprio per controllare L. e soprattutto, essendo L.R. critico nei confronti di alcune attività della CIA, controllare che eseguisse gli ordini ricevuti e se del caso spronarlo.
Quindi la D.S. affiancò il L. nella sua attività e sostanzialmente aveva una posizione sovraordinata, tenuto conto dei suoi rapporti con il responsabile CIA in Italia C.J. e delle ragioni per le quali era stata inviata a Milano.
E' in tale contesto di attività che la D.S. affiancò il L. anche nella operazione A.O..
Correttamente la corte di merito ha rilevato che alla ricorrente la responsabilità non è stata attribuita per la sua posizione, ma perchè l'importanza della operazione, il dispiegamento di forze davvero considerevole, con la necessità per il comando CIA di provvedere alle necessità di tanti uomini e donne, la complessità della operazione, che presupponeva una precisa attività preparatoria e prevedeva poi un sequestro in pieno giorno nel centro di Milano e l'immediato trasporto del rapito ad Aviano ed il suo successivo imbarco su due aerei per giungere alla destinazione finale del Cairo, la necessità di prendere accordi al alto livello in Germania ed in Egitto, implicavano sul piano logico un coinvolgimento dei dirigenti CIA in Italia al massimo livello.
A tale considerazione del tutto logica ed alla valutazione del ruolo di preminenza esercitato dalla D.S. in Milano ed alla funzione di controllo della attività del L., si sono aggiunti, come già si è rilevato, quegli elementi che rendono certi sulla sussistenza di un concorso della ricorrente nel grave episodio di cui è processo.
Le conclusioni dei giudici di merito sono, pertanto, sorrette da indubbia razionalità.
Nel quadro delineato certamente di rilievo sono, come si è dinanzi accennato, le dichiarazioni di D'. e Pi..
In merito alle stesse la ricorrente ha sostenuto che vi era stato un travisamento delle dichiarazioni del D'. ed ha sollecitato la corte di legittimità a rivalutare la testimonianza in discussione; ma, come si è già detto, ciò non compete a questa corte che non può sulla base di stralci di tali dichiarazioni fornirne una interpretazione alternativa.
Il punto critico di tali dichiarazioni consisterebbe nel fatto che la D.S. venne trasferita a Milano nel mese di giugno del 2001 e, quindi, prima dell'attentato alle torri gemelle, cosicchè le perplessità del L. non potevano essere riferite alle extraordinary renditions; ma l'argomento non è affatto risolutivo perchè resta il fatto che la D.S. venne trasferita a Milano per controllare l'operato del L. perchè evidentemente i vertici della CIA non erano soddisfatti della sua attività.
Ciò, ovviamente, non esclude affatto che successivamente abbia partecipato con il L. riluttante, come emerge dalle dichiarazioni del D'. e del Pi., alla operazione.
Anche le riserve sulla attendibilità del L., le cui confidenze sono state riferite da D'. e Pi., non hanno pregio perchè fondate su un presunto contrasto delle confidenze ricevute dai due uomini e riferite ai giudici.
In verità dalle sentenze di merito emerge che le dichiarazioni del D'. e del Pi. sulle perplessità manifestate dal L. in ordine alla operazione A.O. sono sostanzialmente coincidenti, circostanza che fa ritenere attendibili entrambe le deposizioni.
Per concludere sul punto, va detto che i pur articolati rilievi della ricorrente non fanno emergere la denunciata manifesta illogicità del ragionamento probatorio della corte distrettuale, che dovrebbe comportare l'annullamento della sentenza impugnata.
29.3. Della immunità consolare, oggetto del terzo motivo di impugnazione, si è già discusso nel paragrafo 23) e, quindi, alle considerazioni ivi svolte si rinvia.
29.4. E' infondato il quarto motivo di impugnazione, che, anzi, si risolve in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.
La ricorrente si è doluta della revoca delle attenuanti generiche, della eccessività della pena inflitta e del fatto che erroneamente sia stata ritenuta l'aggravante prevista dall'art. 605 cod. pen., comma 2, n. 2.
Le questioni prospettate sono in tutto analoghe a quelle contenute nell'undicesimo motivo di impugnazione di Ro.Jo., ai rilievi avanzati dai ricorrenti c., ca., Gu., K., J. e I. con i motivi sesto e settimo della loro impugnazione, nonchè dai ricorrenti A., As., Ca., Ch., D., H., Ha., L., Lo., Pu., R.P., So. e V. con il quinto motivo del loro ricorso.
I problemi sul punto sottoposti al vaglio di questa corte sono stati affrontati diffusamente nei paragrafi 25.5.), 26.4.), 26.5.), 26.6.), 27.4.) e 27.5.); alle considerazioni ivi svolte, pertanto, si rinvia dal momento che la D.S.S. non ha prospettato questioni nuove o particolari.
Converrà soltanto rilevare che la D.S. occupava un posto di vertice in seno alla CIA e, quindi, per la sua posizione dovrebbero ripetersi, specialmente per quel che riguarda la consapevolezza della partecipazione del Pi. alla operazione, le considerazioni svolte in relazione alla posizione di L.R.S.; alle stesse, quindi, si rinvia.
30. Le posizioni di P.N., D.T.R. e D.G.L..
30.1. Il primo motivo di impugnazione concernente la pretesa inammissibilità della costituzione di parte civile di A.O. è stato già trattato nel paragrafo 22) ed è stato ritenuto non fondato; alle considerazioni svolte dunque si rinvia.
30.2. La questione relativa alla pretesa nullità delle ordinanze del tribunale con le quali era stata dichiarata la sospensione della prescrizione ex art. 159 c.p.p., comma 1, n. 3 non è rilevante per il P., del quale non è stata affermata la penale responsabilità; in ogni caso la questione verrà trattata nel paragrafo dedicato al ricorso di Po.Pi., che ha sollevato analogo problema.
30.3. I motivi quarto, quinto, sesto, settimo ed ottavo del ricorso proposto da P.N., il motivo di impugnazione presentato da D.T.R., ed i due motivi del ricorso di D.G. L., appellante incidentale, sono stati ritenuti assorbiti, tenuto conto delle decisioni assunte da questa corte in tema di segreto di Stato, come meglio è stato precisato nel paragrafo 24.11.), al quale si rinvia.
30.4. Le dichiarazioni di pi. e la violazione dell'art. 512 c.p.p..
Resta da trattare, pertanto, soltanto il terzo motivo di impugnazione relativo alla pretesa erronea acquisizione agli atti del dibattimento delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da pi.lu..
In punto di fatto è accaduto che il pi., dopo essere stato sentito dal Pubblico Ministero, venne posto agli arresti domiciliari il 5 luglio 2006 in considerazione del suo precario stato di salute, essendo affetto da tumore.
Il pi. decedeva in data 11 settembre dello stesso anno, cosicchè non fu possibile ascoltarlo in dibattimento; le sue dichiarazioni furono acquisite agli atti del dibattimento ai sensi dell'art. 512 cod. proc. pen..
Secondo il ricorrente non si sarebbe potuto procedere in tal modo essendo prevedibile la morte del pi.; il Pubblico Ministero avrebbe dovuto richiedere un incidente probatorio.
Il motivo di ricorso non è fondato.
L'art. 512 cod. proc. pen. consente che sia data lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori e dal giudice quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione.
La lettura degli atti costituisce una deroga al principio generale della formazione della prova in dibattimento e, quindi, è consentita soltanto quando vi sia una effettiva impossibilità di ripetizione, che non era prevedibile al momento della assunzione dell'atto (Sez. 6, 20 settembre-29 novembre 1993, n. 10955, Capodicasa).
La valutazione della imprevedibilità dell'evento che renda impossibile la ripetizione dell'atto precedentemente assunto è demandata in via esclusiva al giudice di merito, il quale deve formulare in proposito una prognosi postuma, che deve essere sorretta da una motivazione adeguata e conforme alle regole della logica (così Sez. 2, 4 dicembre 2008-13 gennaio 2009, n. 1202, CED 242712).
La valutazione compiuta dai giudici di merito non merita censure in punto legittimità.
Essi, infatti, hanno rilevato che i pubblici ministeri erano a conoscenza del grave stato di salute del generale pi., ma non avevano la consapevolezza di un suo imminente decesso; precisavano, invero, che le condizioni cliniche del pi. non lasciavano presumere che lo stesso sarebbe deceduto in tempi rapidi, ovvero appena poco più di due mesi dopo la applicazione degli arresti domiciliari.
Si tratta di un argomentare logico e non contestabile con l'affermazione che secondo dati di esperienza gli ammalati di cancro possono venire a mancare in qualsiasi momento.
A prescindere dal fatto che qualunque essere vivente, anche se apparentemente non ammalato, può morire improvvisamente, va detto che l'affermazione del ricorrente risulta smentita proprio dalla esperienza perchè con le cure oggi praticate alle persone affette da cancro i tempi di sopravvivenza sono molto aumentati.
Cosicchè la valutazione espressa dai giudici di merito che nel caso concreto non era assolutamente prevedibile una evoluzione negativa della malattia così rapida, con conseguente immediato decesso del pi. appare del tutto ragionevole e non censurabile sotto il profilo della legittimità.
31. La inammissibilità dei ricorsi di M.M. e C. G..
31.1. Il tribunale di Milano aveva dichiarato, con sentenza emessa in data 4 novembre 2009, non doversi procedere, tra gli altri, nei confronti di C.G. e M.M. in ordine al delitto di sequestro di persona aggravato loro contestato perchè l'azione penale, per quanto legittimante iniziata, non poteva essere proseguita per esistenza del segreto di Stato apposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e confermato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 106 del 2009.
M. e C. non appellavano la sentenza di proscioglimento, che era, invece, stata impugnata dal Pubblico ministero, e sollecitavano la corte di appello ad adottare, ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b), una formula di proscioglimento diversa da quella usata dal giudice di primo grado e più favorevole per gli imputati.
Come si è già ricordato, la corte di appello di Milano confermava, per quel che riguarda C. e M., la decisione di primo grado.
Avverso la decisione di secondo grado M.M. e C. G. hanno proposto ricorso per cassazione chiedendo l'assoluzione con formula piena e, rispettivamente il 15 maggio 2012 ed 24 maggio 2012, depositavano memorie difensive, con le quali ribadivano le loro richieste e contrastavano il ricorso del Procuratore generale nei loro confronti.
31.2. I ricorsi proposti da M.M. e C.G. sono inammissibili.
E' del tutto pacifico, infatti, che i due ricorrenti non abbiano appellato la sentenza di improcedibilità pronunciata dal tribunale di Milano, come da loro stessi precisato nei ricorsi.
E' altrettanto pacifico che la sollecitazione, in pendenza di impugnazione del pubblico ministero, ad adottare, ai sensi dell'art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b), una formula di proscioglimento per loro più favorevole, sia essa avvenuta oralmente o per iscritto, non può valere nè come appello, nè come appello incidentale, anche per il mancato rispetto dei termini previsti dalla legge per proporre impugnazione.
Orbene, ai sensi dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 2, ricorso............può essere proposto contro le sentenze pronunciate in grado di appello o inappellabili.
Nel caso di specie non si tratta di sentenza inappellabile perchè per il delitto contestato al M. ed al C. non è prevista la sola pena dell'ammenda - art. 593 c.p.p., comma 3-; d'altra parte il ricorso si sarebbe dovuto proporre avverso la decisione di primo grado ritenuta inappellabile, cosa che gli imputati non hanno fatto.
L'impugnazione proposta non può nemmeno essere ritenuta un ricorso per saltum ex art. 569 cod. proc. pen. per la semplice ragione che non è stata proposta avverso la appellabile sentenza di primo grado.
Si deve, allora, concludere che i ricorsi di M. e C. proposti omisso medio, ovvero senza prima impugnare la decisione di primo grado (vedi per un caso analogo Sez. 6, 13 marzo-30 aprile 2008, n. 17615, CED 240064), non sono proponibili, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 2, e vanno, quindi, dichiarati inammissibili.
31.3. M.M. e C.G. sono, quindi, tenuti a pagare ciascuno le spese processuali ed a versare una somma, liquidata, in via equitativa, tenuto conto della complessità della vicenda, in Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
31.4. M. e C., infine, sono tenuti, in solido tra loro e con gli altri ricorrenti il cui ricorso è stato rigettato, fatta eccezione per S.L. e Po.Pi., a rimborsare le spese sostenute dalle parti civili, liquidate come indicato nel paragrafo 34).
32. La posizione di Po.Pi..
32.1. P.P., agente del SISMI, è stato condannato in entrambi i gradi di merito per il delitto di favoreggiamento personale per avere, con varie attività tutte puntualmente indicate nel capo di imputazione, agito per depistare le indagini sul sequestro di A. O. al fine di tutelare altri agenti del SISMI implicati nella vicenda processuale.
A Fa.Re., detto (OMISSIS), giornalista di un quotidiano a tiratura nazionale, correo del Po., è stata applicata la pena con sentenza, divenuta esecutiva, del 16 febbraio 2007 ex art. 444 cod. proc. pen. dal GIP presso il tribunale di Milano.
Po.Pi. avverso la decisione di secondo grado ha proposto due ricorsi per cassazione articolando diciannove motivi di impugnazione, arricchiti, poi, dagli argomenti illustrati in una memoria difensiva depositata il 16 maggio 2012.
32.2. Il primo motivo di impugnazione, concernente la presunta inammissibilità della costituzione della parte civile A.O., è infondato ed è stato trattato al paragrafo 22), al quale si rinvia.
Nello stesso paragrafo è stata discussa anche la richiesta delle parti civili di condanna anche di Po.Pi. e S.L. al risarcimento dei danni patiti da A.O. e G.N.; la richiesta è stata rigettata ed alle motivazioni ivi espresse si rinvia.
Tenuto conto dell'esito di merito è evidente che il P. non ha nemmeno più interesse alla eccezione di inammissibilità della costituzione della parte civile A.O., che, comunque, sul piano logico andava trattata per prima.
32.3. La sospensione della prescrizione.
E' infondato anche il secondo motivo di impugnazione, con il quale il Po. aveva denunciato la violazione della legge processuale per avere erroneamente il tribunale disposto la sospensione della prescrizione ex art. 159 c.p., comma 1, n. 3; tale motivo è stato proposto anche da P.N..
In verità il motivo non sarebbe rilevante per la posizione del Po. perchè allo stato la prescrizione del reato di favoreggiamento non è ancora decorsa; lo stesso dicasi per P. che è imputato del delitto di sequestro di persona aggravato.
Tuttavia siccome i due ricorrenti hanno impugnato le ordinanze del 18 giugno 2007 e del 31 ottobre 2007, con le quali il tribunale, avendo disposto, su richiesta della difesa, la sospensione del procedimento in attesa della definizione dei giudizi per conflitti di attribuzione demandati alla Corte Costituzionale, aveva dichiarata sospesa la prescrizione durante il periodo di sospensione, appare opportuno affrontare la questione, che potrà divenire rilevante nel prosieguo del processo.
L'art. 159 cod. pen., nel disciplinare la sospensione del corso della prescrizione, al comma 1, n. 3 stabilisce che il corso della prescrizione rimane sospeso.....anche in caso di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di "impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell'imputato o del suo difensore".
I ricorrenti hanno sostenuto che la sospensione sarebbe stata possibile soltanto in caso di esigenze personali dell'imputato e/o del suo difensore e non anche quando il difensore si fosse limitato a rappresentare al giudice una esigenza oggettiva che avrebbe imposto o consigliato il rinvio del processo o la sospensione dello stesso; nel caso di specie era stata rappresentata al giudice la pendenza dei conflitti di attribuzione in relazione alla materia del segreto e della sua estensione e, quindi, la opportunità, riconosciuta dai giudici di merito, di attendere l'esito del giudizio della Corte Costituzionale sui conflitti di attribuzione.
Pacifica essendo in fatto la situazione, non è fondato il motivo di ricorso.
Come già detto, il citato art. 159 cod. pen., dopo avere chiarito che il termine della prescrizione è sospeso in caso di impedimento dell'imputato o del suo difensore, aggiunge che la sospensione si verifica anche quando vi sia richiesta di rinvio del processo delle parti o dei difensori, senza che la norma precisi le ragioni della richiesta.
Le due cause di sospensione - impedimento o richiesta delle parti - sono, invero, distinte, come è lecito desumere dal termine - congiunzione - "ovvero" che lega le due ipotesi.
La congiunzione "ovvero" può avere una semplice valenza esplicativa - ad esempio, verrò in ufficio fra tre giorni, ovvero mercoledì -, oppure un valore disgiuntivo - "siasi questa giustizia, ovver perdono" (Tasso) - e, quindi, il significato di oppure; nel caso in questione sembra evidente che il significato del termine "ovvero" sia disgiuntivo, nel senso che la sospensione è possibile quando vi sia impedimento della parte o del difensore, oppure quando vi sia richiesta delle parti.
Che quella proposta sia l'interpretazione più corretta sotto un profilo letterale della disposizione in oggetto è confermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale (S.U. 28 novembre 2001-11 gennaio 2002, n. 1021) la sospensione o il rinvio del dibattimento comportano la sospensione dei termini di prescrizione ogniqualvolta siano disposti per impedimento dell'imputato o del suo difensore ovvero su loro richiesta.
Ed anche più recentemente (Sez. 1 21 dicembre 2006-22 febbraio 2007, n. 7337, CED 235711 e Sez. 4, 28 giugno-26 ottobre 2007, n. 39606, CED 237877) la giurisprudenza ha stabilito che integra una causa di sospensione del corso della prescrizione il rinvio del dibattimento disposto su richiesta congiunta dell'imputato e della parte civile al dichiarato fine di addivenire ad un accordo in ordine al risarcimento del danno, anche se non mancano pronunce che sembrano essere di segno contrario (vedi ad esempio Sez. 5, 24 settembre-20 novembre 2008, n. 43372, CED 242187).
La interpretazione letterale indicata risulta confermata da quella logico-sistematica: il legislatore ha inteso giustamente evitare che si potesse pervenire alla scadenza dei termini di prescrizione attraverso una serie reiterata di rinvii ed ha, quindi, stabilito che quando venga disposto un rinvio a richiesta di parte si sospenda la decorrenza del termine di prescrizione, a meno che il rinvio non sia determinato da esigenze di acquisizione della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa (così S.U. 28 novembre 2001-11 gennaio 2002, n. 1021, citata); ciò perchè il tempo previsto dal legislatore per la fase dibattimentale deve essere impiegato proprio per formare la prova e, quindi, rinvii per tale ragione non possono determinare alcuna sospensione della prescrizione; lo stesso dicasi quando si tratta di garantire un corretto esercizio del diritto di difesa.
Negli altri casi di richiesta di parte di un rinvio, sia esso determinato da esigenze delle parti o da circostanze obiettive, che, però, dalla parte vengano ritenute rilevanti per l'esito del processo, si determina la sospensione del termine prescrizionale.
La tesi difensiva, secondo la quale quando la richiesta sia motivata da esigenze obiettive non sarebbe consentita la sospensione di cui si è discusso, è, pertanto, esclusa sia dalla interpretazione letterale della disposizione che da quella logico-sistematica.
In conclusione la richiesta di annullamento delle due ordinanze richiamate deve essere rigettata.
32.4.1. L'opposizione del segreto ed i pretesi vizi procedurali.
Sono infondati il terzo motivo di impugnazione, comune anche al S., che concerne questioni attinenti l'opposizione del segreto di Stato, ed il quarto motivo relativo alla utilizzazione di atti coperti da segreto.
In ordine al primo aspetto i ricorrenti si sono doluti, in particolare, del fatto che, pur avendo essi opposto il segreto di Stato, il tribunale non avesse attivato la procedura prevista dalla L. n. 124 del 2007, art. 41 al fine di ottenere la conferma da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il rilievo non ha fondamento.
Come ha correttamente rilevato la corte territoriale non è pensabile che ad ogni opposizione del segreto di Stato da parte di un testimone o di un indagato/imputato il giudice debba attivare la complessa procedura, essendo evidenti le gravi diseconomie processuali.
In effetti il segreto potrebbe essere opposto su fatti e circostanze del tutto avulse dal contesto processuale e probatorio, cosicchè si tratterebbe esclusivamente di attività defatigatorie; nè, ovviamente, è sufficiente la qualità di agente del SISMI per opporre il segreto, perchè, come si è già spiegato, il segreto e la sua opposizione/apposizione non mirano a garantire l'immmunità di chi il segreto opponga, essendo questa piuttosto una conseguenza del divieto probatorio su alcune fonti di prova, ma a tutelare beni costituzionalmente rilevanti quali l'integrità dello Stato, le buone relazioni internazionali ecc. ecc..
Orbene quando in un processo, come quello in discussione, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in modo insindacabile da parte dell'Autorità giudiziaria, abbia delimitato l'ambito del segreto, chiarendo che lo stesso non veniva apposto sui reati, sempre conoscibili e perseguibili da parte del giudice, ma su alcune specifiche fonti di prova, e la Corte Costituzionale, in sede di risoluzione dei conflitti di attribuzione, abbia precisato che il segreto può riguardare atti, documenti e notizie che attengano ai rapporti tra i servizi segreti italiano e stranieri e ai ed interna corporis del servizio di informazione italiano, il giudice potrà, tenuto conto dei confini tracciati dalle Autorità a tanto preposte, ritenere coperti da segreto ulteriori atti e documenti sui quali venga opposto il segreto nel corso del processo e che rientrino nei parametri indicati, senza attivare nuovamente la complessa procedura.
Allo stesso modo il giudice dovrà valutare la pertinenza della opposizione, nel senso che dovrà tenere conto del collegamento tra il fatto su cui è stato opposto il segreto e l'oggetto della prova processuale, così come è stato correttamente ritenuto dalla corte distrettuale.
Inoltre il giudice dovrà verificare se siano già state acquisite agli atti del processo fonti di prova autonome - sia a carico che a discarico -, nel senso che non abbiano nessun collegamento con fatti e circostanze che potrebbero eventualmente essere coperti da segreto, attivando la procedura soltanto quando le circostanze sulle quali sia stato opposto il segreto siano essenziali per la soluzione del processo.
Se non fosse consentita una tale valutazione al giudice che procede, infatti, si andrebbe incontro a possibili manovre dilatorie, che debbono, invece, essere assolutamente evitate ed a veri e propri abusi nel ricorso al segreto, come denunciato dal Parlamento Europeo nella più volte richiamata risoluzione.
Insomma l'opposizione/apposizione/conferma del segreto, come già ricordato, mira a tutelare beni fondamentali per la vita della Repubblica, ma poichè pone un limite all'accertamenrto di fatti reato, anche gravi, ed alla conoscenza da parte dell'opinione pubblica di vicende di decisiva rilevanza, costituisce un limite alla pienezza del controllo della comunità su fatti di grande rilievo ed all'esercizio della giurisdizione.
In proposito è bene rammentare ancora una volta la distinzione operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 106 del 2009 tra ipotesi di segretezza intrinseca all'atto la cui diffusione sia idonea a recare danno alla integrità ed alla indipendenza dello stato democratico, anche in relazione ad accordi internazionali, alle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio degli organi costituzionali, e casi nei quali, come per il rapimento di A.O., per consentire la percezione della esistenza delle ragioni che giustificano il segreto di stato è necessaria una espressa dichiarazione del Presidente del Consiglio.
Fermo restando, come si è più volte ricordato, che non è precluso in ogni caso all'autorità giudiziaria di procedere in base a elementi autonomi ed indipendenti dagli atti, documenti e cose coperti da segreto, come, peraltro, è espressamente voluto dal testo dell'art. 202 c.p.p., comma 6.
Inoltre il segreto opposto, secondo le precisazioni della Corte Costituzionale, funge da sbarramento soltanto nei limiti dell'atto o del documento cui il segreto accede "ed a partire dal momento in cui l'esistenza del segreto ha formato oggetto di comunicazione all'Autorità giudiziaria procedente".
Ebbene nel caso di specie la corte distrettuale, uniformandosi ai principi ora enunciati ed a quelli indicati nel paragrafo specificamente dedicato al segreto di stato, ha negato l'annullamento della ordinanza del tribunale in data 1 luglio 2009 e non ha attivato la procedura L. n. 129 del 2007, ex art. 41 proprio perchè l'opposizione del segreto da parte di Po. e S. concerneva aspetti che non presentavano alcun collegamento con le notizie ed i fatti sui quali era stato già apposto il segreto e perchè la loro responsabilità era fondata sugli esiti di intercettazioni telefoniche e su dichiarazioni testimoniali o di coimputati, ovvero su fonti del tutto autonome rispetto a quelle coperte da segreto.
La corte di merito ha, infatti, chiarito, con motivazione che non merita alcuna censura sotto il profilo della legittimità perchè rispettosa dei principi affermati in tema di segreto di stato dalla Corte Costituzionale, che per il delitto di favoreggiamento non si poneva per nulla il problema del segreto non tanto per la cesura temporale esistente tra il sequestro ed il favoreggiamento - circa tre anni -, quanto per il fatto che non vi era alcun collegamento logico e probatorio tra i due fatti; insomma quello attribuito al Po. ed al S. è un semplice tentativo di depistare le indagini e di prospettare profili di responsabilità a carico di persone non coinvolte nel sequestro allo scopo di salvare degli amici dalle indagini delle Autorità giudiziarie e di polizia.
32.4.2. La pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni di Fa.
R..
Anche il profilo dedotto da Po.Pi. di inutilizzabilità delle dichiarazioni di Fa.Re., detto (OMISSIS), perchè coperte da segreto trattandosi di un informatore del SISMI e, quindi, di un incaricato di un pubblico servizio è infondato.
A prescindere da altre considerazioni, assorbente è il fatto che Fa.Re., giornalista professionista, non avrebbe mai potuto avere un rapporto ufficiale con il SISMI, tanto da farlo qualificare come appartenente al servizio di informazioni.
Sia la L. n. 801 del 1977 - art. 7 - sia la nuova L. n. 124 del 2007, infatti, vietano che i servizi di informazione possano avere alle loro dipendenze, in modo organico o saltuario, giornalisti professionisti; il Fa., infatti, è stato radiato dall'ordine dei giornalisti.
Del resto il Fa., consapevole del divieto e del fatto che non potesse essere considerato uomo dei servizi non ha opposto alcun segreto di Stato ed ha reso ampie dichiarazioni tutte utilizzabili anche perchè non coinvolgenti le relazioni con servizi stranieri nè atti e documenti sui quali fosse stato apposto il segreto.
32.5. La pretesa inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche.
Sia il Po. - motivo di ricorso n. 5 - che il S. - motivo n. 4 - hanno sostenuto la illegittimità delle intercettazioni telefoniche disposte sulle loro utenze cellulari sotto due profili:
il primo perchè per il delitto di favoreggiamento personale punito con pena non superiore ai quattro anni non erano consentite le intercettazioni di conversazioni telefoniche ai sensi dell'art. 266 cod. proc. pen., comma 1 ed il secondo perchè non sarebbero consentite le intercettazioni di conversazioni intervenute tra agenti del SISMI. Il motivo è infondato.
Non vi è alcun dubbio che per il delitto di favoreggiamento non possano essere disposte intercettazioni telefoniche ed ambientali ai sensi dell'art. 266 cod. proc. pen. perchè il delitto di favoreggiamento personale non è punito con pena edittale superiore a quattro anni di reclusione.
Ed è anche vero che ai sensi dell'art. 270 cod. proc. pen. i risultati delle intercettazioni non possano essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti.
Non ricorrono, però, nel caso di specie le indicate condizioni che rendono inutilizzabili gli esiti delle intercettazioni.
In primo luogo le intercettazioni delle conversazioni telefoniche sui cellulari in uso a Po.Pi. e S.L. sono state disposte nell'ambito del procedimento per il sequestro di persona e non in procedimento diverso; per tale ragione risultano applicabili alla fattispecie le disposizioni previste dall'art. 266 cod. poc. pen. e non quelle di cui all'art. 270 c.p.p..
In secondo luogo non è vero che dette intercettazioni siano state disposte al fine di accertare un delitto di favoreggiamento - circostanza che le avrebbe rese inutilizzabili -, essendo, invece, vero che le stesse vennero disposte ed eseguite al fine di salvaguardare la genuinità della prova del delitto di sequestro di persona, come si evince agevolmente dalla motivazione della sentenza impugnata e da quella dei decreti autorizzativi allegati al ricorso da S.L.; sul punto non è ravvisabile il travisamento di detta motivazione come sostenuto dal S..
Vi erano, invero, fondati timori che si stessero ponendo in essere varie manovre per inquinare il materiale probatorio raccolto e per impedire che si acquisissero ulteriori elementi di prova, timori, peraltro, per nulla peregrini ed infondati come emerso dal prosieguo delle indagini.
Le intercettazioni in discussione furono, pertanto, legittimamente disposte ricorrendo tutti i presupposti richiesti dagli artt. 266 e 267 cod. proc. pen.; ivi compreso quello della misura della pena edittale, posto che per il delitto di sequestro di persona è prevista una pena superiore ai quattro anni di reclusione.
Dalle intercettazioni suddette emersero elementi per procedere contro S.L. e Po.Pi. per il delitto di favoreggiamento personale contestato in rubrica.
Correttamente in siffatta situazione vennero utilizzati tali elementi contro i due ricorrenti perchè è del tutto legittimo utilizzare i risultati di intercettazioni disposte nell'ambito di indagini relative a reato rientrante nell'elenco di cui all'art. 266 cod. proc. pen. anche nei confronti di persone non precedentemente indagate a carico delle quali emergano elementi di un reato diverso da quello per il quale si procede, anche se si tratti di reati per i quali le intercettazioni non siano consentite (vedi Sez. 3, 22 settembre-11 novembre 2010, n. 39761, CED 248557).
Quanto al secondo aspetto, nel richiamare tutte le considerazioni svolte in tema di segreto ed in particolare quelle che escludono che le attività di favoreggiamento poste in essere dai due ricorrenti possano essere coperte da segreto, va detto, in linea generale, che le intercettazioni di conversazioni tra agenti del SISMI non sono vietate dalla legge per essere coperte dal segreto per effetto della sola qualifica soggettiva delle persone intercettate; se così non fosse le norme sul segreto di Stato non sarebbero più disposizioni a tutela di atti e notizie riservati, ma norme che costituirebbero una inammissibile immunità per gli agenti appartenenti al servizio segreto.
La possibilità di intercettare siffatte comunicazioni si ricava a contrario da quanto stabilito dall'art. 270 bis cod. proc. pen., norma introdotta dalla L. 3 agosto 2007, n. 124, art. 28, secondo la quale quando l'Autorità giudiziaria acquisisca, tramite intercettazioni, che sono, quindi, consentite, "comunicazioni di servizio" di appartenenti ai servizi di informazioni per la sicurezza, dispone la secretazione immediata dei documenti; tale obbligo, pertanto, sussiste soltanto quando si tratti di intercettazioni relative a comunicazioni di servizio, circostanza pacificamente insussistente nel caso di specie.
Seguendo l'indirizzo della Corte Costituzionale il segreto potrebbe essere opposto ed essere apposto soltanto quando le comunicazioni telefoniche intercettate abbiano ad oggetto le relazioni con servizi di informazione stranieri, circostanza pacificamente inesistente con riferimento alle intercettazioni che concernono la posizione di Po. e S..
Ma, anche a volere seguire la impostazione dei ricorrenti, secondo i quali - si veda in particolare il ricorso di S.L. - siffatta limitazione della Corte Costituzionale era stata operata con riferimento ad altro ricorso per conflitto di attribuzione e non con riferimento al ricorso n. 28 che aveva ad oggetto anche le intercettazioni in discussione, e ritenere, quindi, che il segreto riguardi anche le conversazioni che possano compromettere la segretezza degli interna corporis, il motivo risulta infondato.
Infatti appare del tutto ragionevole che non debbano essere divulgati gli assetti organizzativi del servizio di informazione nè le istruzioni impartite dal direttore degli stessi agli appartenenti al servizio perchè ciò potrebbe compromettere la funzionalità del servizio e, quindi, la tutela di beni rilevanti.
Ma, si diceva in precedenza, l'opposizione e l'apposizione del segreto sono istituti molto delicati che non possono essere sviliti sostenendo, ad esempio, che il fatto che un subordinato presti il cellulare in uso al suo superiore e sia tenuto a farlo costituisca una fatto interno alla organizzazione, la cui conoscenza pregiudichi o possa pregiudicare la funzionalità del servizio di informazioni;
tutto è sostenibile, ma in casi del genere non è assolutamente possibile parlare di interna corporis soggetti a segreto di Stato.
Quanto alle altre conversazioni intercettate esse riguardano o colloqui tra persone che, pur appartenendo al servizio di informazioni, avevano commesso un illecito o che lo stavano commettendo e, quindi, nessuna rivelava interna corporis, ma semplicemente contatti tra persone, che, accusate di aver commesso, a livello individuale e non come esecutori di doveri istituzionali, un grave reato, cercavano di inquinare le prove, avvalendosi delle funzioni svolte, per garantirsi l'impunità ed altre che, pur non essendo implicate nel sequestro, cercavano di aiutare i colleghi e gli amici.
32.6. Il delitto di favoreggiamento.
32.6.1. Numerosi motivi di impugnazione concernono la pretesa insussistenza, sotto diversi profili, del delitto di favoreggiamento.
Anche tali motivi sono infondati.
Il delitto di cui all'art. 378 cod. pen. è un reato di pericolo astratto e consiste nel turbamento della funzione giudiziaria, non essendo richiesto che le investigazioni dell'autorità siano effettivamente fuorviate.
E', pertanto, sufficiente per integrare il reato che la condotta dell'agente abbia l'attitudine e possa conseguire lo scopo di aiutare il colpevole ad eludere le investigazioni in corso (Sez. 6, 3 novembre 1997-19 gennaio 1998, n. 359).
Non è, quindi, necessario che l'azione abbia realmente raggiunto l'effetto di ostacolare le investigazioni (Cass., 10 febbraio 2000, Pace).
In base a tali indirizzi la corte territoriale correttamente, con valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, ha ritenuto che le manovre, puntualmente descritte nei capi di imputazione, ideate e poste in essere da Po.Pi. e F. R. fossero astrattamente idonee a creare rischi per le indagini in corso, a nulla rilevando che alcuni investigatori nutrissero sospetti sulle loro intenzioni.
Risultano, pertanto, infondati il sesto, il settimo e l'ottavo motivo di impugnazione; le censure contenute in questi ultimi motivi e riguardanti il colloquio tra il Fa. ed i pubblici ministeri si risolvono, in effetti, in censure di merito, avendo la corte di merito chiarito che il colloquio fu concordato tra il Fa. ed il Po. ed aveva lo scopo di carpire notizie, capire quale fosse lo stato delle indagini nei confronti di agenti del SISMI e far sorgere sospetti su altri soggetti - il sostituto procuratore D'.
S. e la DIGOS -, in modo da depistare le indagini in corso, essendo irrilevante che anche altri in precedenza avessero avanzato analoghi sospetti.
Sotto tale profilo non ha alcun rilievo che la persona alla quale si volevano carpire informazioni fosse un pubblico ministero, nè che le notizie false necessario per depistare fossero a lui dirette; non per tali ragioni può essere ravvisata una assoluta inidoneità della condotta ad intralciare l'attività giudiziaria.
32.6.2. Risulta infondato anche l'ottavo motivo di impugnazione relativo al dedotto vizio di correlazione tra quanto contestato e quanto ritenuto in sentenza con riferimento alla informativa consegnata dal colonnello L. al giornalista A..
In effetti la corte territoriale ha menzionato tale episodio in motivazione quale ulteriore argomento a sostegno della affermazione di responsabilità, ma non ha pronunciato condanna anche per tale condotta, cosicchè non è ravvisabile alcuna violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen..
In ogni caso, pure depurata da tale argomento, la motivazione concernente l'affermazione di responsabilità del Po. è più che congrua.
32.6.3. Quanto al motivo numero dieci - pretesa omessa motivazione sul suggerimento ad alcuni giornalisti di articoli sul coinvolgimento nel sequestro del D'. e della DIGOS -, sarà sufficiente osservare che il giudice di appello deve prendere in considerazione esclusivamente quanto venga dedotto dalla parte; nel caso di specie non risulta che il ricorrente avesse esplicitamente contestato tale addebito; in ogni caso le due sentenze di merito sono conformi in punto affermazione di responsabilità e, quindi, le motivazioni, per costante giurisprudenza di legittimità, si integrano.
32.6.4. Infondato è anche l'undicesimo motivo di impugnazione, nonchè il sesto di S.L. sostanzialmente analogo, perchè non è vero che gli agenti del SISMI fossero fuori dalle indagini, essendo calato il sipario nero sulle fonti di prova, e che, pertanto, non vi fosse taluno da aiutare, perchè, a prescindere dal fatto che non può parlarsi di sipario nero o di indecidibilità, come questa corte ha già chiarito, va detto che la Corte Costituzionale ha spiegato che nessun segreto era stato apposto sul fatto reato, ma soltanto su alcune fonti di prova, cosicchè spettava ai giudici di merito verificare se in base a fonti di prova non coperte da segreto si dovesse pervenire ad una assoluzione o ad una affermazione di responsabilità per gli agenti del SISMI indagati; da quanto detto si deduce che gli agenti del SISMI erano legittimamente indagati, ed altri avrebbero potuto esserlo, cosicchè erano ben possibili manovre di depistaggio delle indagini e, quindi, di favoreggiamento.
32.6.5. Per le stesse ragioni è infondato il dodicesimo motivo di impugnazione perchè, come si è notato, l'opposizione ed apposizione del segreto non aveva reso per nulla impossibili le indagini nei confronti di agenti del SISMI e, quindi, sarebbe stato ben possibile accertare eventuali responsabilità del Po. in ordine al sequestro di A.O..
Dalle indagini considerate dalle sentenze di merito non sono emersi elementi che possano far ritenere un concorso del P. nel delitto di cui all'art. 605 cod. pen., cosicchè sussiste l'elemento negativo richiesto dall'art. 378 cod. pen., ovvero la mancata partecipazione del Po. al reato presupposto.
32.6.6. Manifestamente infondato è il tredicesimo motivo di impugnazione perchè, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, che ha parlato di un dolo di favoreggiamento, per la sussistenza del delitto di favoreggiamento personale non è necessario un dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico, che consiste nella volontà cosciente di aiutare una persona a sottrarsi alle investigazioni (ex multis, trattandosi di giurisprudenza costante, Sez. 1, 6 maggio-8 luglio, 1999, n. 8786).
I giudici di merito hanno motivato sia in ordine alle condotte poste in essere dal Po., sia in ordine alla sua consapevolezza di aiutare qualcuno, desunta dalle modalità operative, dai rapporti esistenti tra favoreggiatore ed aiutati e, principalmente, dal tenore dei colloqui tra il Po. ed il Fa..
Naturalmente nessun rilievo ha il fatto che il Po., oltre a quello segnalato, potesse essere mosso anche da altri interessi quale quello informativo.
32.6.7. Manifestamente infondato è anche il quattordicesimo motivo di impugnazione.
Il reato presupposto costituisce elemento materiale della fattispecie descritta dall'art. 378 cod. pen. e, quindi, deve essere accertata la sussistenza dello stesso; ciò che importa, quindi, è che sia stato accertata la obiettiva sussistenza del reato presupposto, non essendo rilevante se gli autori dello stesso siano o meno già sottoposti ad indagine.
Orbene che A.O. fosse stato sequestrato era circostanza ben nota perchè ampiamente pubblicizzata dai mass-media; sostenere che il SISMI non fosse a conoscenza di un fatto così grave verificatosi in Italia è davvero paradossale e, comunque, smentito dai numerosi elementi posti in evidenza dalle due sentenze di merito.
Non ha, poi, nessun rilievo, per la sussistenza del reato contestato, se agenti del SISMI fossero o meno già indagati quando il Po.
ha posto in essere la sua condotta favoreggiatrice, nè, come si è già detto, ha rilievo l'apposizione del segreto su alcune fonti di prova.
32.7. Infondato è anche il quindicesimo motivo di ricorso.
Già in precedenza si è spiegato come sulla vicenda del favoreggiamento non si sarebbe potuto opporre alcun segreto di Stato;
alle considerazioni già svolte si rinvia.
Nel paragrafo dedicato in generale al segreto di Stato ed all'accoglimento dei ricorsi del procuratore generale e delle parti civili sul punto si è pure spiegato perchè fosse manifestamente infondata la eccezione di costituzionalità della L. n. 124 del 2007, artt. 39 e 41, apparendo del tutto ragionevole ed equilibrato il rapporto esistente tra l'esigenza del segreto ed il diritto di difesa, così come fissato dal legislatore, secondo l'interpretazione fornitane dalla Corte Costituzionale; alle osservazioni sviluppate in proposito, quindi, si rinvia.
Come pure in questo paragrafo già si è affrontato il tema della mancata attivazione della procedura opposizione/conferma del segreto prevista dalla legge; anche in questo caso, al fine di evitare inutili ripetizioni, si rinvia a quanto già esposto.
Alla luce di tutte le osservazioni richiamate si può affermare che le circostanze sulle quali il Po. aveva opposto il segreto, e che sono puntualmente riportate nel ricorso, non potevano risultare coperte da segreto proprio in virtù delle note di apposizione e conferma del segreto della Presidenza del Consiglio e dei principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 106/2009, con la quale erano stati risolti i conflitti di attribuzione.
Ed, infatti, le circostanze concernenti la consapevolezza del Po. dell'avvenuto sequestro di A.O., il suo rapporto con Fa.Re. e la possibile volontà del servizio di eludere le investigazioni, a prescindere dal fatto che sono provate, come si desume dalle sentenze di merito, da numerosi elementi di prova - intercettazioni e dichiarazioni di Fa.Re. - sulle quali non è opponibile nessun segreto, come si è già ampiamente illustrato, non rientrano tra quelle passibili di essere coperte dal segreto, secondo i principi enunciati dalla Corte Costituzionale.
Sapere che A.O. era stato sequestrato è, infatti, circostanza neutra che non ha nulla a che vedere con il segreto; data la diffusione mediatica della notizia, infatti, la maggior parte degli italiani era al corrente dell'avvenuto sequestro; che tale notizia non fosse nota al servizio di informazioni per la sicurezza è, come si è già notato, circostanza paradossale ed assolutamente incredibile; si potevano ignorare le circostanze del fatto, ma che A.O. fosse sparito e fosse stato rapito era circostanza nota e pacifica.
Quanto ai rapporti con il Fa. in relazione all'episodio contestato è stato proprio quest'ultimo a rappresentarli, come hanno rilevato i giudici dei primi due gradi di giurisdizione; inoltre già si è spiegato che non era ipotizzabile un rapporto Fa. - SISMI perchè vietato dalla legge.
Infine che il servizio informazioni volesse eludere le investigazioni è circostanza che non può rientrare tra quelle coperte da segreto perchè di sicuro non rientra tra i fini istituzionali del servizio quello di intralciare il corso della giustizia.
32.8. Il sedicesimo ed il diciottesimo motivo di impugnazione, con i quali il ricorrente si è doluto della eccessività della pena e del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, sono manifestamente infondati e si risolvono in censure di merito inammissibili in sede di legittimità.
Non è vero, infatti, che i giudici non abbiano tenuto conto degli elementi indicati nel ricorso - incensuratezza, non avere prodotto danni alle parti civili, non avere agito per motivi egoistici -; essi ne hanno tenuto conto, tanto è vero che, con motivazione immune da manifeste illogicità, ne hanno escluso alcune ed hanno ritenuto il Po. non meritevole delle attenuanti generiche, nonostante la incensuratezza, per la notevole gravità del fatto commesso e per la pervicacia dimostrata nel commettere l'illecito.
Si tratta di valutazioni di merito che in quanto sostenute da una motivazione immune da manifeste illogicità non merita alcuna censura in punto legittimità.
Infine non può il ricorrente paragonare, per quel che concerne la pena inflitta, la sua situazione a quella del Fa. che ha compiuto una scelta processuale differente e non era un pubblico ufficiale come il Po..
32.9. L'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9. E' infondato anche il diciasettesimo motivo di ricorso perchè, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9 è ravvisabile sia nella ipotesi in cui l'agente violi i doveri inerenti ad una pubblica funzione, sia quando abusi dei poteri che la funzione gli conferisce.
Si tratta di due ipotesi diverse che non debbono essere confuse ben potendo l'aggravante ravvisarsi quando l'attività del colpevole sia stata realizzata profittando comunque delle funzioni pubbliche.
Tra l'altro la circostanza aggravante in questione prescinde dal nesso funzionale tra il fatto delittuoso e la pubblica funzione, dovendosi la stessa ravvisare anche quando la commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dall'esercizio dei poteri che la pubblica funzione conferisce all'agente (vedi Sez. 2, 30 aprile-18 maggio 2009, n. 20870, CED 244738).
Infine l'aggravante è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. 1, 28 maggio-16 giugno 2009, n. 24894, CED 243805).
Orbene i giudici del merito hanno correttamente applicato tali indirizzi ritenendo che Po.Pi. per commettere il reato di favoreggiamento non solo si è avvalso degli strumenti tecnici in dotazione quale agente dei servizi di informazione, come il telefono cellulare, ma ha utilizzato il prestigio e l'autorità (vedi sul punto Sez. 3, n. 37068 del 24 giugno 2009) che la funzione esercitata gli conferiva per avvalersi di giornalisti e persone con le quali era in rapporto per motivi di servizio per compiere le attività illecite contestategli.
Non è, infine, superfluo rilevare che Po.Pi. invece di utilizzare i poteri conferitigli per tutelare la sicurezza nazionale, si è avvalso del suo potere per tentare di ostacolare l'attività giudiziaria ed impedire che singoli appartenenti al servizio, suoi amici e colleghi, venissero indagati per avere, in ipotesi, partecipato a livello individuale ad un grave delitto.
32.10. L'applicazione della pena accessoria.
A Po.Pi. sono state applicate in primo grado la pena principale di anni tre di reclusione e la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
In grado di appello la pena principale è stata ridotta ad anni due e mesi otto di reclusione, ma la pena accessoria è stata mantenuta nella identica misura considerando la gravità del fatto e dell'abuso della pubblica funzione.
Il ricorrente si è lamentato della eccessività della durata della pena accessoria e della mancanza di motivazione specifica.
Analogo motivo di impugnazione è stato proposto da S.L..
Orbene, al di là degli argomenti del ricorrente, va detto che il motivo di ricorso è fondato.
Come è noto ai sensi dell'art. 29 cod. pen. la condanna per un tempo non inferiore a tre anni di reclusione importa la interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque; corretta, pertanto, era la decisione del tribunale essendo la pena principale inflitta superiore ai tre ani.
La corte territoriale ha ridotto la pena principale infliggendo al Po. la pena della reclusione di anni due e mesi otto di reclusione, ma, come già detto, ha confermato la misura di quella accessoria.
Come rilevato dalla stessa corte di merito, anche se in modo implicito, nel caso di specie, essendo la pena principale inflitta inferiore ai tre anni, non si poteva più fare riferimento all'art. 29 cod. pen. che determina la misura della pena accessoria automaticamente a seconda che la pena principale sia superiore ai cinque o ai tre anni di reclusione.
Risulta applicabile, invece, alla fattispecie in esame quanto disposto dall'art. 31 cod. pen., secondo il quale ogni condanna inflitta per delitti commessi con abuso di poteri importa l'interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Sotto tale profilo la decisione della corte di merito di confermare la applicazione della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici è certamente corretta perchè è stato ritenuto che il delitto di favoreggiamento sia stato commesso dal ricorrente con abuso dei poteri allo stesso conferiti dalla funzione esercitata.
L'errore consiste nella determinazione della durata della pena accessoria, fissata in cinque anni per la gravità del fatto commesso, perchè l'art. 31 cod. pen. prevede genericamente la condanna alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, senza indicazione della durata.
In siffatti casi non è possibile fare riferimento all'art. 29 cod. pen. che stabilisce automaticamente la durata della pena accessoria in relazione alla durata di quella principale, ma è necessario fare riferimento all'art. 37 cod. pen., secondo il quale "quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale".
Nel senso indicato, del resto, si è già espressa la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale nel caso di generica previsione, senza indicazione di durata, della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, essa deve intendersi come interdizione temporanea con durata uguale a quella della pena principale inflitta e, comunque, non inferiore ad un anno (Sez. 6, 29 maggio-10 novembre 1997, n. 10108).
Si deve, allora, previo annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla commisurazione della pena accessoria inflitta a Po.Pi. rideterminare la durata della interdizione temporanea dai pubblici uffici in anni due e mesi otto.
33. La posizione di S.L..
33.1. E' necessario premettere che quasi tutti i motivi di ricorso proposti da S.L., anche lui appartenente al SISMI ed accusato del delitto di favoreggiamento, sono stati trattati nel paragrafo dedicato alla posizione di Po.Pi. perchè si trattava di motivi sostanzialmente identici, ed anzi in alcuni casi sovrapponibili.
Pertanto al fine di evitare ripetizioni si adotterà il metodo del rinvio a quanto già detto.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
S.L. ha opposto il segreto di Stato e si è lamentato del fatto che sia i giudici di primo grado che quelli di appello non avessero attivato la procedura per la conferma prevista dalla L. n. 124 del 2007, art. 41.
In particolare S.L. ha sostenuto che oggetto di prova a difesa avrebbe dovuto essere la impossibilità di impedire al generale Pi. l'uso del cellulare a lui attribuito, ma per fare ciò avrebbe dovuto rivelare interna corporis del servizio, cosa che gli era vietata dalla legge.
Infine il ricorrente si è lamentato che gli altri imputati italiani appartenenti al servizio di informazioni erano stati prosciolti ai sensi dell'art. 202 c.p.p., comma 3, mentre lui aveva subito una sorte diversa.
Le tesi del ricorrente sono prive di fondamento.
Le doglianze di S.L., in effetti, come già detto, sono sostanzialmente identiche a quelle avanzate da Po.Pi..
Agli argomenti esposti nel paragrafo 32.4.1.) si deve, dunque, rinviare.
Le vicende relative al delitto di favoreggiamento contestato al S. sono, pertanto, fuori dell'area coperta dal segreto.
Vanno pure esplicitamente richiamate tutte le considerazioni svolte nell'indicato paragrafo 32.4.1.) per negare le denunciate irregolarità per la mancata attivazione, da parte dei giudici, della procedura per la conferma del segreto di cui alla L. n. 124 del 2007, art. 41, oltre a quelle svolte nel paragrafo dedicato al segreto di Stato.
E' necessario più specificamente rilevare che il S. nella discussione del motivo ha fatto riferimento esclusivamente all'uso del suo telefono cellulare da parte del pi., dimenticando che a suo carico vi sono numerose altre telefonate, dalle quali emerge un ruolo attivo del S. nel tentare di architettare qualcosa per salvare gli amici dalle indagini.
Si intende fare riferimento alle numerose telefonate M. - S., oltre a quelle S. - pi. puntualmente analizzate dalla corte distrettuale, dalle quali emerge il ruolo del S. di intermediario tra il M. ed il pi., l'interessamento per l'andamento delle indagini a carico degli uomini SISMI, la preoccupazione per le dichiarazioni di D'., l'organizzazione di un incontro M. - pi. allo scopo di individuare la strategia di intervento più opportuna per depistare le indagini in corso.
Ebbene su tali elementi di prova ampiamente discussi dalla corte distrettuale nulla di preciso e specifico ha osservato il ricorrente.
In questa sede converrà soltanto ricordare che tali conversazioni telefoniche intercettate sono pienamente utilizzabili perchè costituiscono fonti di prova non coperte da alcun segreto perchè in esse non si discuteva di relazioni del SISMI con servizi di informazione stranieri, nè si rivelavano delicati assetti organizzativi del servizio italiano; semplicemente si tratta di conversazioni di persone, delle quali alcune sottoposte ad indagine per il sequestro di persona, che ragionavano su come intralciare le indagini dell'Autorità giudiziaria - attività che certamente non rientra tra quelle istituzionali del SISMI - al fine di salvare alcuni amici coinvolti nella indagine per attività illecite svolte a titolo individuale e non nell'ambito di operazioni del servizio di informazione.
Naturalmente il fatto che gli agenti del SISMI coinvolti nel sequestro di A.O. siano stati prosciolti ex art. 202 c.p.p., comma 3 - proscioglimento che, comunque, è stato annullato da questa Corte - non ha alcun rilievo, essendo la posizione di S.L. del tutto diversa e la sua responsabilità fondata su elementi di prova non coperti da segreto di Stato e, quindi, pienamente utilizzabili.
33.2. E' infondato anche il secondo motivo di ricorso sempre attinente alla pretesa inutilizzabilità degli elementi di prova a carico del S. perchè coperti dal segreto per tutte le ragioni ampiamente illustrate nei richiamati paragrafi 32.4.1.) e 32.5.) ai quali si rinvia.
33.3. Anche il terzo motivo di impugnazione è infondato, ed anzi è affetto anche da mancanza di specificità.
Il ricorrente aveva censurato una ordinanza del tribunale, non revocata, ma senza specifica motivazione, dai giudici di appello, con la quale era stata revocata l'ammissione di due testi a discarico - Io.Ma. e pi.lo. - "in quanto l'oggetto del capitolo di prova ricadeva in modo inequivoco nell'ambito del segreto di Stato così come delineato dalla Corte".
Per quel che è dato comprendere i due testimoni - o imputati di un reato connesso? - avrebbero dovuto riferire su aspetti organizzativi del servizio di informazione, materia certamente coperta dal segreto come stabilito dalla Corte Costituzionale; quindi del tutto corretta appare la decisione del tribunale; la mancanza di motivazione specifica della corte di merito sul punto può essere colmata dalla presente decisione.
Va detto che S.L. nel ricorso non ha nemmeno indicato con puntualità l'oggetto della prova non ammessa; il motivo è, pertanto, privo della necessaria specificità.
In ogni caso, come si è già detto, la responsabilità del S. è stata affermata in base alle numerose prove già indicate ed a fronte di ciò il ricorrente non ha assolutamente spiegato perchè fossero essenziali le prove non ammesse e perchè fossero decisive tanto da determinare un esito diverso del processo.
Sotto gli indicati profili il motivo di ricorso non è specifico.
33.4. E' infondato anche il quarto motivo di impugnazione, con il quale è stata riproposta la eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni di conversazioni telefoniche disposte nel corso del procedimento per l'accertamento delle responsabilità per il delitto di sequestro di persona, ma, secondo i ricorrenti S.L. e Po.Pi., inutilizzabili nei confronti degli imputati del reato di favoreggiamento personale.
La questione è stata trattata nel paragrafo 32.5.) al quale, quindi, si deve rinviare, ribadendo che le intercettazioni nei confronti di S.L. e Po.Pi., così come correttamente stabilito dalla corte distrettuale, vennero disposte allo scopo di salvaguardare la genuinità delle prove del delitto di cui all'art. 605 cod. pen., reato che certamente consente le intercettazioni ai sensi dell'art. 266 cod. proc. pen..
Per tale ragione non appaiono pertinenti i riferimenti alla giurisprudenza di questa corte compiuti dal ricorrente perchè le pronunce richiamate si riferiscono a situazioni e fattispecie diverse, ovvero ad intercettazioni disposte in processi per reati che consentivano l'uso di tale strumento, ma finalizzate ad accertare altri reati che, invece, non rientravano nel catalogo previsto dall'art. 266 cod. proc. pen..
33.5. Le censure contenute nel quinto motivo di impugnazione sono infondate e si risolvono in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.
S.L. ha sostenuto che l'unico elemento a suo carico era costituito dalla consegna del suo telefono cellulare al generale pi. e che non vi erano elementi per ritenere che avesse partecipato alle conversazioni M. - pi..
Ma tali affermazioni sono contraddette dai giudici del merito che dall'esame delle numerose telefonate M. - S. - è superfluo ricordare che la interpretazione delle conversazioni intercettate spetta ai giudici del primi due gradi di giurisdizione-, dalla consegna del telefono al pi., e dalle conversazioni S. - pi. sono giunti alla conclusione che il ricorrente avesse partecipato a pieno titolo alle attività tese ad intralciare le indagini in ordine al sequestro di A.O..
Le valutazioni del materiale probatorio raccolto sono sorrette, come si è già notato, da una motivazione non solo congrua, ma anche immune da manifeste illogicità, cosicchè le censure del S. si risolvono in inammissibili censure di merito.
33.6. Anche il sesto motivo di impugnazione - mancanza del reato presupposto nel delitto di favoreggiamento - è infondato per tutte le ragioni esposte nel paragrafo 32.6.4.), al quale si rinvia.
33.7. La violazione dell'art. 511 cod. proc. pen..
Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto la nullità o inutilizzabilità degli atti per mancata lettura- indicazione degli stessi da parte del giudice di primo grado.
La questione, che aveva costituito motivo di appello, era stata rigettata dal giudice di secondo grado, non essendo prevista per la mancata lettura degli atti ex art. 511 cod. proc. pen. alcuna sanzione di nullità o di inutilizzabilità.
Con il ricorso S.L. ha ripreso gli argomenti già illustrati ed ha criticato la decisione dei giudici di secondo grado, eccependo, peraltro, che la interpretazione fornita dalla corte di merito rendeva gli artt. 511 e 526 cod. proc. pen. incostituzionali per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost..
Il motivo di ricorso non è fondato e la eccezione di incostituzionalità è manifestamente infondata.
L'art. 511 cod. proc. stabilisce al comma 1 che il giudice dispone che sia data lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento; al quinto comma si precisa che il giudice può indicare gli atti utilizzabili ai fini della decisione e tale indicazione sostituisce la lettura di cui al comma 1, salvo alcune ipotesi di lettura obbligatoria, che, comunque, non ricorrono nel caso di specie.
Naturalmente la lettura e la indicazione degli atti sono prescritte soltanto per gli atti originariamente contenuti nel fascicolo formato ai sensi dell'art. 431 cod. proc. pen., come è lecito desumere da quanto disposto dagli artt. 495 e 515 cod. proc. pen. (vedi Sez. 6, 26 febbraio-28 maggio 1997, n. 4947, Musca); mediante la lettura, infatti, si finisce con il rispettare il principio dell'oralità del dibattimento, che è pienamente rispettato per le prove assunte nel corso della istruzione dibattimentale nel contraddittorio delle parti.
Già questa prima osservazione rende chiaro che il motivo di ricorso, sebbene molto articolato ed arricchito da richiami di arresti della Suprema Corte, non appare sufficientemente chiaro perchè non precisa affatto per quali atti sia stata omessa la lettura dal giudice di primo grado.
E' lecito supporre, infatti, in mancanza di più precise indicazioni da parte del ricorrente, che una parte di atti dei quali si denuncia la omessa lettura sia stata assunta nel corso del dibattimento; i rilievi per tali atti sono, quindi, infondati perchè per gli atti assunti in dibattimento nel contraddittorio delle parti non vi è alcuna necessità di lettura e, comunque, per la mancata lettura non è ravvisabile nessuna lesione del diritto di difesa; in questo caso, infatti, le parti possono discutere e concludere con perfetta cognizione di tutto il materiale probatorio assunto.
Ma alle stesse conclusioni deve pervenirsi anche per quanto riguarda gli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento e, quindi, non assunti nel contraddittorio delle parti.
Come è stato rilevato correttamente dalla corte distrettuale la giurisprudenza maggioritaria di legittimità ritiene che la violazione dell'obbligo di lettura o di indicazione degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento previsto dall'art. 511 cod. proc. pen. non determini alcuna nullità, non essendo essa specificamente sanzionata in tal senso nè apparendo inquadrabile in alcuna delle cause generali di nullità previste dall'art. 178 cod. proc. pen. (Sez. 1, 4-19 ottobre 2005, n. 38306, CED 232443); neppure è ravvisabile in casi siffatti una inutilizzabilità degli atti dei quali sia stata omessa la lettura ai sensi dell'art. 191 cod. proc. pen. (oltre alla sentenza citata vedi anche nello stesso senso Sez. 1, 16 dicembre 1993-10 febbraio 1994, n. 1723, Citraro), non incidendo la mancata lettura sulla legittimità dell'acquisizione delle prove documentate nei menzionati atti.
Il Collegio ritiene di dare continuità a tale indirizzo giurisprudenziale perchè fondato su una corretta interpretazione delle norme processuali.
Ed, infatti, in ossequio al principio della tassatività delle nullità, ed in genere delle sanzioni processuali, dovrebbe esservi una espressa previsione, mentre nessuna norma sanziona con una previsione di nullità la violazione dell'obbligo di lettura degli atti; d'altra parte la violazione in discorso non è inquadrabile in una delle ipotesi di nullità generale previste dall'art. 178 cod. proc. pen. perchè non incide sull'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato.
Quanto alla pretesa inutilizzabilità conseguente alla mancata lettura bisogna rilevare che l'art. 191 cod. proc. pen. deve essere letto in relazione all'art. 526 c.p.p., secondo il quale il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento; quindi la inutilizzabilità è prevista soltanto in caso di illegittima acquisizione della prova.
Nonostante le dotte considerazioni del ricorrente il momento della acquisizione della prova non può farsi coincidere con quello della lettura degli atti perchè l'acquisizione logicamente e cronologicamente, come rilevato dalla giurisprudenza richiamata, si distingue, precedendola, da quella della lettura o indicazione degli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento.
Ma, ha osservato ancora il ricorrente, la mancata lettura degli atti che saranno utilizzati per la deliberazione compromette i diritti della difesa perchè non consentirebbe una puntuale discussione su ciò che dal giudice è ritenuto determinante ai fini della decisione.
La tesi non può essere accolta perchè, come si è già rilevato, per le prove acquisite nel corso della istruttoria dibattimentale non vi è alcun bisogno della lettura perchè sarà il difensore, che ha assistito a tutta la fase, ad impostare la sua difesa tenendo conto di tutto il materiale probatorio raccolto; non si riesce a comprendere in siffatta ipotesi quale possa essere in concreto il vulnus al completo dispiegarsi del diritto di difesa.
Ma, a ben vedere, anche nella ipotesi di atti acquisiti al fascicolo del dibattimento prima dell'inizio della istruttoria dibattimentale, non è ravvisabile alcuna lesione dei diritti della difesa.
Infatti ai sensi dell'art. 431 cod. proc. pen. il giudice provvede alla formazione del fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio delle parti; quindi le parti possono interloquire sin da quel momento e contestare la legittimità della acquisizione e, quindi, la inutilizzabilità di tali atti; le parti, inoltre, potranno riproporre le stesse questioni anche nella fase degli atti preliminari al dibattimento ex art. 491 cod. proc. pen.; infine la illegittima acquisizione di un atto e, quindi, la sua inutilizzabilità, sarà sempre rilevabile (vedi Sez. 5, 10 gennaio- 18 maggio 2007, n. 19473, CED 236633).
Anche in questo caso, allora, non si vede quale possa essere la effettiva lesione al diritto di difesa, posto che il difensore è a conoscenza degli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento, che potranno legittimamente essere utilizzati per la decisione, fin dal momento della formazione del fascicolo; quindi non è vero che senza la lettura si utilizzano atti "a sorpresa".
Ma, ha osservato ancora il ricorrente, nella ipotesi prevista dall'art. 525 cod. proc. pen. la mancata lettura degli atti rende inutilizzabili gli stessi.
Il riferimento a tale norma è, però, incongruo perchè si tratta di situazioni processuali del tutto diverse.
L'art. 525 cod. proc. pen. prevede, a pena di nullità, che debba essere il giudice che ha partecipato al dibattimento a dover decidere; se per una qualsiasi ragione muti il giudice il dibattimento dovrà essere rinnovato, con la ripetizione di tutta la sequenza procedimentale prevista dalla legge processuale; senonchè la giurisprudenza ha stabilito, per evidente ragioni di economia processuale, che quando le parti non siano contrarie si può disporre la lettura delle dichiarazioni precedentemente raccolte nel contraddicono delle parti e inserite legittimamente nel fascicolo del dibattimento (S.U. 15 gennaio-17 febbraio 1999, n. 2, Jannasso).
E' del tutto evidente che si tratti di situazioni processuali del tutto differenti e che nella ipotesi del mutamento del giudice la lettura serva per recuperare prove già espletate che, in caso contrario, dovrebbero essere ripetute; insomma situazione non paragonabile a quella ordinaria quando sia le parti che il giudice abbiano partecipato alla formazione del fascicolo per il dibattimento ed alla assunzione delle prove nella fase dibattimentale.
La comprovata assenza di lesioni al diritto di difesa rende manifestamente infondata la eccezione di incostituzionalità degli artt. 511 e 526 cod. proc. pen..
33.8. Le censure contenute nell'ottavo motivo di impugnazione sono infondate e si risolvono in censure di merito inammissibili in sede di legittimità.
Il ricorrente si è lamentato per la eccessività della pena infintagli e per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ed, in particolare, per la sottovalutazione del suo stato di incensuratezza.
La valutazione della corte di merito non merita, invece, censure in punto legittimità perchè con motivazione immune da vizi logici ha spiegato che la gravità della condotta, caratterizzata da ripetuti tentativi, compiuti da un pubblico ufficiale con abuso dei suoi poteri, di intralciare le indagini imponeva una misura della pena superiore alla metà del massimo edittale e non consentiva il riconoscimento delle attenuanti generiche.
Il motivo deve, pertanto, essere rigettato.
33.9. E', invece, fondato il nono ed ultimo motivo di impugnazione concernente la erronea applicazione della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Come si è già detto il motivo è del tutto analogo a quello proposto dal ricorrente Po.Pi..
I due ricorrenti si trovano nella identica posizione giuridica perchè sono stati condannati entrambi per il delitto di favoreggiamento e per entrambi la pena inflitta in primo grado è stata ridotta ad anni due e mesi otto di reclusione dal giudice di appello.
L'esame di tale motivo di ricorso è stato, pertanto, già sviluppato nel paragrafo 32.10.) concernente la posizione del Po.; a tutte le considerazioni ivi svolte si deve, pertanto, rinviare al fine di evitare inutili ripetizioni.
34. Conclusioni.
34.1. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale ed in parziale accoglimento dei ricorsi delle parti civili, nei confronti di P.N., D.T.R., C.G., M.M. e D.G.L., con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Milano per nuovo esame.
I ricorsi proposti da P., D.T. e D.G. restano assorbiti.
Vanno annullate conseguentemente anche le ordinanze emesse il 22 e 26 ottobre 2010 dalla corte di appello di Milano.
34.2. La predetta sentenza deve, inoltre, essere annullata senza rinvio nei confronti di Po.Pi. e S.L., limitatamente alla commisurazione della pena accessoria inflitta, che deve essere rideterminata in anni due e mesi otto, ovvero in misura pari alla pena principale inflitta ai due ricorrenti.
Nel resto i ricorsi proposti da Po. e S. debbono essere rigettati.
34.3. I ricorsi proposti da C.G. e M.M. debbono essere dichiarati inammissibili e conseguentemente i due ricorrenti vanno condannati singolarmente a versare la somma, liquidata, in via equitativa, in relazione ai motivi dedotti, di Euro mille alla cassa delle ammende ed a pagare le spese del procedimento.
34.4. I ricorsi delle parti civili debbono essere rigettati limitatamente alla richiesta di condanna di Po.Pi. e S. L. al risarcimento dei danni.
34.5. I ricorsi proposti da A.M.C., As.
G., Ca.Lo.Ga., Ch.Dr.Ca., D.J.K., H.R., Ha.Be.Am., L. R.S., Lo.Cy.Da., Pu.L.Ge., R. P., So.Jo., V.M., c.e., c.v., Gu.Jo.Th., K.J.R., J.A.L., I.B.L., F.V., ha.ja.th., Ro.Jo.L. III e D.S. S. debbono essere rigettati.
I predetti singolarmente sono tenuti a pagare le spese del procedimento.
34.6. Infine tutti gli imputati ricorrenti, fatta eccezione per Po.Pi., S.L., P.N., D.T. R. e D.G.L., essendo risultati soccombenti debbono essere condannati, in solido, al rimborso delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione dalle parti civili, spese che si liquidano, in base ai nuovi criteri per la liquidazione dei compensi ai professionisti dettati con il D.M. 20 luglio 2012, n. 140, entrato in vigore il giorno successivo, e tenuto conto, in particolare, che per la difese dinanzi alle magistrature superiori è previsto che il valore medio di liquidazione sia corrispondente a quello previsto per il tribunale monocratico, aumentato del 220%, in complessivi Euro 5.760,00 per ciascuna delle parti civili, oltre accessori secondo legge.
Le spese sostenute dalle parti civili da porre a carico dei ricorrenti P., D.T. e D.G. risultati soccombenti, essendo stato accolto il ricorso delle parti civili contro di loro, vanno liquidate con la sentenza di merito definitiva.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, nei confronti di Po.
P. e S.L., limitatamente alla commisurazione della pena accessoria inflitta, che ridetermina in anni due e mesi otto;
Rigetta nel resto i ricorsi presentati dai predetti Po. e S.;
Annulla la sentenza impugnata, in accoglimento dei ricorsi del Procuratore generale ed in parziale accoglimento di quelli delle parti civili, nei confronti di P.N., D.T. R., G.G., M.M. e D.G.L., restando assorbiti i ricorsi proposti dagli stessi P., D. T. e D.G., con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Milano per nuovo esame;
Dichiara inammissibili i ricorsi proposti da C.G. e M.M. e condanna ciascuno a versare la somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende;
Rigetta i ricorsi delle parti civili, limitatamente alla richiesta di condanna di Po.Pi. e S.L. al risarcimento dei danni;
Rigetta i ricorsi proposti da A.M.C., As.
G., Ca.Lo.Ga., Ch.Dr.Ca., D.J.K., H.R., Ha.Be.Am., L. R.S., Lo.Cy.Da., Pu.L.Ge., R. P., So.Jo., V.M., c.e., c.v., Gu.Jo.Th., K.J.R., J.A.L., I.B.L., F.V., ha.ja.th., Ro.Jo.L. III e D.S. S. e condanna singolarmente gli stessi, nonchè C. G. e M.M., al pagamento delle spese processuali;
Condanna tutti gli imputati ricorrenti, ad eccezione di Po.Pi., S.L., P.N., D.T.R. e D.G. L., in solido, al rimborso delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione dalle parti civili, spese liquidate in complessivi Euro 5.760,00 per ciascuna delle parti civili medesime, oltre accessori secondo legge.
(vd. PDF per indice).
Così deciso in Roma, (udienze del 12 giugno, 13 e 14 luglio e 19 settembre 2012), il 19 settembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2012