[N.d.r.: Qualora un embrione, creato in vitro, sia impiantato per errore nell’utero di donna estranea alla coppia, i figli nati dalla gravidanza acquisiscono lo status di figli di chi li ha partoriti].
Con ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. i sig.ri (...) e (...), in proprio ed asseritamente in rappresentanza dei gemelli nascituri, hanno chiesto venisse ordinato ai sigg.ri (...) e (...) di fornire tutte le informazioni relative allo stato di salute dei nascituri nonché a dove e quando avverrà il parto affinché possano formare l’atto di nascita dal quale risultino genitori, nonché di consegnare i gemelli al momento della nascita ai ricorrenti quali genitori genetici; ordinarsi al Ministero dell’Interno di diffidare tutti gli Ufficiali dello stato civile presso le anagrafi italiane dal formare l’atto di nascita dei due gemelli indicando quali genitori i Signori (...) e (...) in contrasto con la verità biologica, in quanto i genitori dei nascituri sarebbero i signori (...) e (...).
Si sono costituiti all’odierna udienza i resistenti (...) e (...) esponendo che il 3 agosto erano nati i figli frutto dell’impianto dell’embrione e chiedendo che il ricorso venisse dichiarato inammissibile per la sopravvenuta mancanza di interesse in ordine alle domande relative all’iscrizione anagrafica dei figli ed alle informazioni sulla data del parto; nonché per la mancata indicazione della domanda di merito da proporsi. Nel merito chiedevano il rigetto del ricorso in quanto il rapporto di filiazione si era legittimamente costituito secondo quanto previsto dal nostro ordinamento, pienamente confacente all’interesse dei minori a mantenere il legame con la madre gestante, e trovando applicazione le norme che disciplinano la fecondazione eterologa.
Il Pubblico Ministero è intervenuto chiedendo il rigetto del ricorso in quanto era interesse dei minori non essere separati dalla madre biologica e trovando piena applicazione la norma che prevede che la madre sia colei che ha partorito (art. 269 comma 3 c.c.).
* * *
Preliminarmente deve rilevarsi che avendo la nascita avuto luogo le domande relative alla richiesta di informazioni sullo stato di salute dei nascituri e sulla sospensione della loro iscrizione anagrafica alla nascita sono state rinunciate dai ricorrenti.
I ricorrenti hanno in udienza modificato la domanda rinunciando alla richiesta di consegna dei neonati e chiedendo che venisse disposta la loro collocazione in una struttura idonea, separandoli dai resistenti, od in subordine venisse garantito il diritto di visita dei genitori genetici onde poter assicurare la costruzione di un legame affettivo con i minori tale da non pregiudicare il patrimonio di affetti costruito in questo caso anche con i ricorrenti, nel caso venisse riconosciuto il loro diritto quali legittimi genitori. Ciò previa richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.c. nella parte in cui prevede che la madre sia colei che partorisce il figlio, senza eccezioni, dell’art. 239 comma 1 c.c. nella parte in cui prevede la possibilità di reclamare lo stato di figlio solo in caso di supposizione di parto o sostituzione di neonato, dell’art. 234-bis c.c. nella parte in cui viene limitata la legittimazione a proporre l’azione di disconoscimento di paternità, in relazione all’art. 263 c.c. che invece prevede che l’azione possa essere proposta da chiunque vi abbia interesse.
La difesa dei resistenti ha fatto rilevare l’incompatibilità con il procedimento d’urgenza della richiesta di sollevare questione di costituzionalità ed ha chiesto il rigetto anche delle domande come modificate in udienza.
La domanda di merito cui il provvedimento di urgenza dovrebbe essere strumentale deve ritenersi quella rivolta all’accertamento della paternità e maternità naturale, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme indicate al fine di consentire da parte dei ricorrenti le azioni dirette a porre nel nulla lo status acquisito dai due gemelli con la nascita.
Dalla modifica dell’oggetto del presente giudizio, conseguente alla nascita, deve ritenersi che il Ministero dell’Interno non sia più legittimato passivamente, mentre il Comune di Roma non lo era ab origine in quanto nella gestione dell’Anagrafe agisce come delegato del Ministero.
La vicenda ha ad oggetto lo scambio di embrioni avvenuto presso l’Ospedale Pertini in Roma, al quale le due coppie si erano rivolte per ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, attraverso la creazione di embrioni in vitro con gli ovociti ed il seme delle coppie. Per un fatale errore umano gli embrioni formati col patrimonio genetico dei ricorrenti sono stati impiantati nell’utero della resistente e viceversa. L’impianto dell’embrione nell’utero della sig.ra (...) non è andato a buon fine, tanto che la gravidanza non è neppure iniziata, mentre è andato a buon fine l’impianto nell’utero della sig.ra (...) e la gravidanza è giunta a termine con la nascita di due gemelli, il cui patrimonio genetico appartiene ai ricorrenti.
La vicenda ha suscitato un dibattito tra i giuristi già prima di approdare davanti al giudice, quando i mezzi di informazione hanno dato notizia del tragico errore. Su di essa si è pochi giorni orsono (l’11 luglio 2014) pronunciato anche il Comitato Nazionale di Bioetica, senza prendere alcuna posizione sui criteri etici e biogiuridici che dovrebbero ispirare il bilanciamento e la composizione degli interessi in conflitto.
La peculiarità della vicenda, oltre che per le drammatiche implicazioni umane di tutti i soggetti coinvolti, discende dal fatto che il diritto non contempla e non disciplina in modo esplicito la fattispecie in esame.
Già tali considerazioni dovrebbero indurre a dubitare di poter affrontare tali tematiche nel corso di un procedimento cautelare essendo quantomeno dubbia, stante la natura assolutamente controversa di qualsiasi soluzione possa venire indicata, la sussistenza del fumus bonis iuris del diritto azionato.
Il provvedimento cautelare richiesto sarebbe, infatti, strumentale all’azione di merito di dichiarazione giudiziale di maternità e paternità naturale, che sulla base dell’attuale normativa non potrebbe essere proposta dai ricorrenti. Infatti allo stato sono i resistenti i genitori legittimi dei nati, sulla base delle norme che regolano la filiazione e la prova del possesso di stato, mentre i ricorrenti non possono proporre l’azione di merito invocata (azione di dichiarazione giudiziale di maternità e paternità naturale), ostandovi il possesso di stato attuale dei nati e non essendovi i presupposti per la contestazione dello stato di figlio o la legittimazione a proporre l’azione di disconoscimento di paternità.
Il provvedimento richiesto non potrebbe, quindi essere concesso. L’unica strada sarebbe quella di sollevare la questione di costituzionalità delle norme che, però, non si ritiene ammissibile e rilevante in quanto contrastante con gli interessi dei minori alla stabilità del loro status e con il loro diritto a vivere con quella che è la propria famiglia secondo l’ordinamento vigente.
La rilevanza deve, infatti, essere valutata in relazione al caso concreto ed al concreto bilanciamento dei diritti coinvolti.
La fattispecie non può essere sic et simpliciter ricondotta alla fecondazione eterologa, il cui divieto è stato recentemente dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014.
Infatti, manca, almeno ab origine, la volontà di sottoporsi a tale tecnica di PMA ed il preventivo consenso informato, anche se non può ritenersi priva di rilevanza, come si vedrà, la successiva consapevolezza di quanto accaduto e la decisione di portare comunque avanti la gravidanza.
Non sono state nel caso di specie, per ovvi motivi, rispettate le procedure previste dall’art. 6 della Legge 40, ritenuto dalla Corte Costituzionale applicabile anche alle tecniche di fecondazione eterologa, in quanto le parti avevano prestato il consenso informato alle sole tecniche di fecondazione omologa.
Né può ritenersi la fattispecie concretizzi un’ipotesi di "maternità surrogata", espressamente vietata nel nostro ordinamento dal comma 6 dell’art. 12 della legge n. 40 del 2004, mancando del tutto il consenso e la volontarietà del comportamento sia della madre genetica che della madre biologica. E’ sopravvenuto, infatti, il solo consenso dei genitori genetici che hanno introdotto il presente giudizio.
Ci si trova di fronte un’eterologa “da errore” (la madre porta in grembo embrioni geneticamente non suoi né del marito o del partner) o una surroga materna "da errore" (i genitori genetici producono embrioni che sono impiantati nell’utero di un’altra donna che li porta in gestazione) con una procedura priva di consenso, il che sembra generare una situazione di indeterminatezza in merito alla maternità e paternità (v. Commissione Nazionale di Bioetica, 11/7/2014 cit.) a fronte di un vuoto legislativo che dovrebbe venire colmato in via interpretativa.
Il nostro sistema normativo prevede che «la maternità è dimostrata provando la identità di colui che pretende di essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre» (art. 269 comma 3 c.c.).
Tale norma è stata introdotta con la riforma del 1975 quando ancora le tecniche di procreazione assistita erano agli albori, ma è pur vero che la sua formulazione è stata mantenuta dal legislatore della riforma della filiazione di cui al D.Lgs. n. 154 del 2013.
Il legislatore della riforma, inoltre, nel sostituire la norma di cui all’art. 239 c.c., ha previsto la possibilità di reclamare, o contestare, lo stato di figlio (art. 240 c.c.), solo in caso di sostituzione di neonato o supposizione di parto.
Non può negarsi, quindi, la volontà del legislatore, molto recente, di mantenere quale principio cardine dell’ordinamento la maternità naturale legata al fatto storico del parto.
Nel caso in cui la donna gestante, unita in matrimonio, dichiari nell’atto di nascita il figlio come nato durante il matrimonio, il marito ne diviene il padre legale (art. 231 c.c., come modificato dal D.Lgs n. 154/2013 che ha soppresso l’inciso “concepito” durante il matrimonio). Peraltro, in presenza dello status di figlio di altra persona (il marito della donna gestante), il padre genetico non può promuovere l’azione di disconoscimento e non può riconoscere il figlio.
La volontà del legislatore in ordine ai limiti all’azione di disconoscimento di paternità è rimasta ferma, nonostante nella disciplina previgente numerose siano state le questioni di legittimità sollevate in ordine alla disparità di trattamento tra figli nati in costanza o fuori dal matrimonio in relazione alla diversa disciplina dell’azione di impugnazione del riconoscimento.
Tutte sempre rigettate dalla Corte Costituzionale affermando che la determinazione dei soggetti legittimati a proporre l’azione di disconoscimento della paternità è una scelta insindacabile del legislatore che ha ritenuto di riservare ai soli soggetti direttamente interessati, e cioè ai membri della famiglia legittima, il potere di decidere circa la prevalenza della verità “biologica” o della verità “legale”: una innovazione, che attribuisse direttamente la legittimazione ad agire a soggetti privati estranei alla famiglia legittima, quale è il presunto padre naturale, rappresenterebbe la scelta di un criterio diverso, legato ad una ulteriore evoluzione della coscienza collettiva, che solo il legislatore può compiere. Mentre la Corte di Cassazione ha sempre negato al presunto padre naturale sia la possibilità di intervenire nel giudizio di disconoscimento che di proporre opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. avverso la sentenza emessa nel giudizio di disconoscimento, asserendo che lo stesso era «portatore di un interesse di mero fatto».
In ogni caso, prescindendo dall’annoso dibattito sul punto, non si ritiene che nella fattispecie in esame, effettivamente diversa da quelle esaminate dalla Corte, il padre genetico abbia un interesse giuridicamente rilevante da far valere, distinto da quello della madre genetica, per cui le questioni devono essere congiuntamente esaminate, tenendo conto della peculiarità del caso concreto, avendo sempre come riferimento l’interesse del minore, criterio guida ai fini del bilanciamento degli interessi in conflitto.
Anche per la figura paterna a seguito delle tecniche riproduttive con donazione di gamete può venire meno la paternità genetica a favore di una paternità legale.
Sotto l’aspetto sia etico sia giuridico nell’individuazione della maternità, come della paternità, a seguito della PMA eterologa, acquisisce, dunque, rilievo il concetto di volontarietà del comportamento necessario per la filiazione, l’assunzione di responsabilità in ordine alla genitorialità, così da attribuire la maternità e la paternità a quei genitori che, indipendentemente dal loro apporto genetico, abbiano voluto il figlio accettando di sottoporsi alle regole deontologiche e giuridiche che disciplinano la PMA; ne consegue la regola che coloro che hanno dato un consenso informato alla procedura siano i genitori dei nati e che non è consentito il disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre (art. 9, commi 1 e 2).
Il legislatore della riforma del 2013, nel solco dell’evoluzione del pensiero della migliore dottrina e dell’elaborazione giurisprudenziale, ha posto l’accento sul concetto di responsabilità genitoriale, come caratterizzante il rapporto di filiazione, eliminando dal nostro ordinamento l’istituto della potestà genitoriale.
Il rapporto di filiazione - ed il conseguente diritto all’identità personale - si è andato sempre più sganciando nel nostro ordinamento dall’appartenenza genetica, potendosi rinvenire, grazie anche al rilievo “rivoluzionario” delle nuove tecniche riproduttive, diverse figure genitoriali; «la madre genetica» (la donna cui risale l’ovocita fecondato), «la madre biologica» (colei che ha condotto la gestazione), e la madre sociale (colei che esprime la volontà di assumere in proprio la responsabilità genitoriale); il padre genetico ed il padre sociale. Figure che possono anche di fatto non coincidere.
Mentre il concetto di famiglia si è andato, dal canto suo, sempre più sganciando dal dato biologico e genetico degli appartenenti, venendo concepita sempre più come luogo degli affetti e della solidarietà reciproca, prima comunità ove si svolge e sviluppa la personalità del singolo; d’altra parte millenaria filosofia dell’uomo ha identificato nella famiglia l’archetipo della comunità sociale.
Tutte le più recenti pronunce dei giudici interni o europei che si sono trovate a dover dirimere interessi in conflitto relativi al rapporto di filiazione, sono fondate sulla valutazione del dato concreto del legame affettivo familiare ed hanno come punto di riferimento l’interesse del minore (secondo quanto stabilito dalla Convenzione sui diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite il 20.11.1989 e ratificata in Italia dalla L. n. 176/91) ed il principio di “autoresponsabilità” che deve sottendere al rapporto genitoriale, che trova il proprio fondamento nell’obbligo di solidarietà sancito dall’art. 2 della Costituzione, mettendo, quindi, seriamente in discussione il principio del carattere necessariamente biologico o genetico del rapporto di filiazione.
A partire dalla decisione della Corte di Cassazione sul divieto di disconoscimento di paternità da parte del marito della coppia che ebbe a dare il consenso all’inseminazione eterologa della moglie (sentenza n. 2315 del 1999 - che ha sovvertito il dogma secondo il quale principio della verità biologica governasse la materia del rapporto di filiazione), divieto recepito nella L. 40/2004, per finire con le recenti sentenze gemelle della CEDU del 26 giugno 2014, che hanno condannato la Francia per non avere trascritto il rapporto di filiazione derivante da un contratto di maternità surrogata stipulato all’estero. Anche in queste sentenze della Corte europea l’accento non è stato posto sul dato genetico del rapporto di filiazione o su un eventuale diritto dei genitori genetici, ma sul diritto del minore a mantenere il legame familiare consolidatosi nel tempo (in questo senso anche la sentenza della Corte d’Appello di Bari del 13 febbraio 2009, estensore Labellarte).
La centralità dell’interesse del minore nelle azioni di stato è stata ribadita in numerosissime pronunce (v. ad es. la sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2006 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 274 del c.c., la sentenza n. 31 del 2012 che, rivedendo un precedente orientamento in base al quale aveva rigettato la medesima questione, ha dichiarato la parziale incostituzionalità della pena accessoria al reato di alterazione di stato previsto dall’art. 567 c.p., ribadendo la centralità del diritto del minore a conservare la sua identità familiare, e da diverse pronunce di giudici di merito).
Il tutto sulla base del diritto interno ed internazionale: la Convenzione sui diritti del fanciullo stipulata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176; la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo; non diverso è l’indirizzo dell’ordinamento interno, nel quale l’interesse morale e materiale del minore ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la riforma attuata con legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), dopo la riforma dell’adozione realizzata con la legge 4 maggio 1983, n. 184 (Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori), come modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, cui hanno fatto seguito una serie di leggi speciali che hanno introdotto forme di tutela sempre più incisiva dei diritti del minore, e da ultimo dalla riforma della filiazione di cui al D.Lgs n. 154/2013.
Il legislatore italiano della riforma della filiazione, infatti, nel rivedere la disciplina delle azioni di disconoscimento di paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ha previsto un termine tombale di cinque anni per il loro esercizio, anche nei casi di sospensione previsti dalla legge, dando prevalenza all’interesse del minore alla stabilità del rapporto di filiazione ed a non recidere i legami familiari e di affetti che ne fondano l’identità, sulla verità genetica o biologica del rapporto di filiazione.
Il legislatore ha accolto il principio in base al quale la tutela del diritto allo statused alla identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità genetica.
Nel bilanciamento degli interessi in conflitto, prevedendo un termine di decadenza “tombale” per l’esercizio dell’azione, il legislatore delegato ha inteso mutare radicalmente il principio fondante la precedente normativa (v. in particolare la disciplina dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità), lasciando prevalere sull’interesse pubblico alla verità del rapporto di filiazione, l’esigenza di non prolungare indefinitivamente la durata dell’incertezza dello stato di figlio. Mentre ha lasciato il figlio comunque arbitro del proprio status, essendo per lui l’azione imprescrittibile.
Il diritto della personalità costituito dal diritto all’identità appare sempre più sganciato dalla verità genetica della procreazione e sempre più legato al mondo degli affetti ed al vissuto della persona cresciuta ed accolta all’interno di una famiglia.
Se è vero che la famiglia è sempre più intesa come comunità di affetti piuttosto che come istituzione posta a tutela di determinati valori, incentrata sul rapporto concreto che si instaura tra i suoi componenti, ne deriva che al diritto spetta di tutelare proprio quei rapporti, ricercando un equilibrio che permetta di bilanciare gli interessi in conflitto, avendo sempre come riferimento il prevalente interesse dei minori coinvolti.
Non può più ragionevolmente ritenersi che il principio della verità genetica nei rapporti di filiazione sia sovraordinato rispetto agli altri interessi in conflitto.
Nel caso di specie due coppie intendono assumersi la responsabilità genitoriale sui nascituri sulla base di due diversi titoli genitoriali, quello genetico e quello biologico, di chi ha portato avanti la gestazione.
Non si rinvengono motivi nel caso di specie per sollevare questione di costituzionalità delle norme sulla filiazione che hanno portato al riconoscimento dei resistenti quali genitori legittimi dei nati in quanto si ritiene che esse rispondano pienamente, nel caso concreto, agli interessi dei minori coinvolti.
La riforma della filiazione ha mantenuto il principio in base alla quale è il parto che determina la maternità naturale, nella piena consapevolezza, si ritiene, dei progressi scientifici relativi alle tecniche di procreazione e della possibilità che la madre biologica od “uterina” potesse non identificarsi con la madre genetica (la dottrina ne discute fin dagli anni 80, quando in parlamento erano in gestazione i diversi disegni di legge sulla procreazione medicalmente assistita, ponendosi espressamente il problema della prevalenza della madre genetica o della madre biologica in caso di conflitto).
Il riferimento all’embrione, quale prodotto del concepimento, perde di rilevanza anche nella norma relativa alla presunzione di paternità laddove sparisce il riferimento al figlio “concepito” durante il matrimonio, facendosi esclusivo riferimento al figlio nato nel matrimonio.
Il legislatore sembra, quindi, aderire a quella corrente di pensiero che ritiene che è nell’utero materno che la vita si forma e si sviluppa.
Inoltre nelle ipotesi nelle quali si è data rilevanza alla maternità genetica in luogo di quella biologica (v. C.A. Bari e sentenze CEDU citate), si trattava di un contratto che, sebbene vietato dall’ordinamento interno, prevedeva la sussistenza del pieno consenso di tutti i soggetti coinvolti, la madre genetica si era assunta in pieno la responsabilità genitoriale al contrario della madre uterina che aveva consegnato i figli alla nascita e che tale responsabilità non intendeva proprio assumersi. In Tali pronunce si è, comunque, data rilevanza ai rapporti familiari concretamente instaurati, al principio di autoresponsabilità nel rapporto di filiazione ed al superiore interesse del minore.
In questo caso, riconoscendo la prevalenza della madre genetica e quindi ritenendo rilevante la questione di costituzionalità sollevata, si attribuirebbe legittimità giuridica ad una coattiva maternità di sostituzione, con la rinuncia imposta ad un figlio che pure la madre biologica ha condotto alla vita. Soluzione che è totalmente inconciliabile con il diritto della donna che ospita il feto all’intangibilità del suo corpo e, pertanto, ad assumere ogni decisione in ordine alla sua gravidanza, nonché gravemente lesiva della dignità umana della gestante.
La soluzione che si ricava in via interpretativa dall’applicazione al caso di specie del comma 3 dell’art. 269 c.c. e dall’art. 231 comma 1 c.c. è quella che meglio si concilia a parere di questo giudicante con gli interessi dei minori coinvolti, anche in relazione al loro diritto ad essere cresciuti nella famiglia, intesa come comunità degli affetti, che li ha accolti.
La letteratura scientifica è unanime nell’indicare come sia proprio nell’utero che si crea il legame simbiotico tra il nascituro e la madre. D’altro canto è solo la madre uterina che può provvedere all’allattamento al seno del bambino.
Non può, pertanto, non ritenersi sussistente un interesse dei minori al mantenimento di tale legame, soprattutto alla luce del fatto che i bambini sono già nati e nei loro primi giorni di vita deve ritenersi abbiano già instaurato un significativo rapporto affettivo con entrambi i genitori e sono già inseriti in una famiglia.
Si è detto da parte della dottrina che tale soluzione esporrebbe i minori ai rischi connessi alla non applicabilità nel caso di specie delle garanzie previste dall’art. 9 della L. n. 40/2004 per la fecondazione eterologa (ove la madre non può chiedere di non essere nominata ed il padre non può effettuare l’azione di disconoscimento di paternità o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità), esponendo il figlio, all’incertezza del proprio status, in relazione alla paternità od alla possibilità che la madre alla nascita dichiari di non essere nominata.
Posto che tale ultima ipotesi non può ricorrere in quanto i figli sono già nati, il concreto rischio che potrebbe riguardare solo l’esposizione all’azione di disconoscimento di paternità nel ristretto termine previsto dalla norma riformata; posto che è noto che il marito della gestante non è il padre genetico dei nascituri.
Ritiene il giudicante che in via interpretativa siano, però, applicabili gli artt. 6 e 9 della legge 40/2004, essendo pienamente applicabili nel caso di specie i principi che hanno indotto la Corte di Cassazione nel 1999 a ritenere non legittimato a proporre l’azione di disconoscimento di paternità chi avesse dato il consenso alla fecondazione eterologa ed alcuni giudici di merito (tra cui questo Tribunale con sentenza del 5 ottobre 2012) a ritenere non ammissibile l’impugnazione del riconoscimento da parte di chi lo abbia effettuato consapevole della sua falsità.
Non può infatti attribuirsi a chi abbia consapevolmente deciso di assumersi la responsabilità di accogliere un soggetto come figlio, consapevole di non esserne il genitore genetico, di poter porre nel nulla uno status che ha contribuito consapevolmente a formare.
Una diversa interpretazione degli artt. 6 e 9 della L. 40 si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione.
Deve, pertanto, ritenersi che il padre, che ha prestato il proprio consenso alla gravidanza ed all’iscrizione anagrafica del figlio come proprio, non sarebbe legittimato a proporre l’azione di disconoscimento di paternità ed ai sensi dell’art. 6 la madre uterina ed il marito devono ritenersi i genitori dei nascituri.
Sarebbe, infatti, in contrasto con i principi fondanti del nostro ordinamento giuridico, sia di fonte interna che internazionale, l’attribuzione dell’azione al soggetto che avesse posto in essere, o concorso a porre in essere, la situazione giuridica per la cui modificazione tale azione è apprestata (situazione che potrebbe essere ricondotta all’abuso del diritto - v. Cass. Sezioni Unite, sentenza n. 23726 del 2007).
L’argomento, poi, relativo al diritto di ogni persona a conoscere le proprie origini non è pertinente al caso di specie, trattandosi di un diritto ad essere informati che non ha riguardo ai principi che governano l’attribuzione dellostatus relativo al rapporto di filiazione.
Ritiene, quindi, questo giudice che le questioni di costituzionalità sollevate non siano né rilevanti né fondate.
Il ricorso deve essere rigettato per carenza del fumus boni iuris del diritto azionato.
Resta il dramma umano dei genitori che si erano rivolti all’ospedale per trovare soddisfazione al loro diritto alla procreazione ed a formare una famiglia, che potrà trovare tutela solo risarcitoria.
Sussistono giusti motivi in considerazione dell’assoluta novità e della natura controversa delle questioni trattate, per dichiarare le spese di lite integralmente compensate tra tutte le parti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; dichiara le spese di lite integralmente compensate tra le parti.
Tribunale di Roma - Sezione I civile - Ordinanza 8 agosto 2014
(Giudice monocratico Albano)